E la cosa più triste era che a sentirli parlare la maggior parte delle cose che dicevano erano vere e sacrosante. Il rispetto per la terra, la necessità di energie rinnovabili e ecocompatibili, il ritorno a un’agricoltura consapevole e motivata e anche ben retribuita, il bisogno di un’economia decentrata e uno stile complessivo di vita in armonia con la natura. Tutte cose necessarie e impellenti perché l’umanità non facesse la fine del cane che sentendo il sapore del sangue e credendo di mangiare un osso in realtà masticava sé stesso.
Se non fosse stato per quel particolare che faceva la differenza fra la coscienza e l’utilitarismo. Più sostenibile certo, ecologico, biologico, sano, pulito e sicuro, ma nell’ottica del piccolo popolo sempre utilitarismo restava, con il contorno dell’indifferenza alla sorte di chi non aveva voce per difendersi. Che differenza faceva infatti per un pollo o un maiale essere uccisi e mangiati dopo essere stati allevati all’aperto con mangimi doc, venduti nella filiera corta e nel rispetto categorico delle regole Slow Food? Erano forse più felici di sacrificare la loro vita perché qualcuno potesse assaporare una carne più sana, sicura e prelibata, gustando eco-bio-leccornie che rendevano più soddisfatti e tranquilli i promotori di quella che veniva proposta come la soluzione ideale per l’umanità futura e che per certi aspetti lo era? Non certo ideale però per tutti gli animali macellati con l’etichetta Slow Food e cucinati da eco-bio-cuochi indifferenti al dolore che costava.
Se Pachamama avesse potuto parlare con le voci di tutti i suoi figli uccisi per soddisfare il piacere dell’uomo quello che si sarebbe sentito sarebbe stato un pianto interminabile. Ancora più triste perché quella che in suo nome veniva pubblicizzata come l’unica rivoluzione possibile verso un’umanità più giusta e società meglio organizzate in armonia con l’ambiente in realtà trascurava un particolare. Che uccidere gli animali per mangiarli non rientrava nella logica amorevole della Madre Terra o Terra Madre che fosse, e che da un’umanità evoluta e consapevole non era questo che ci si aspettava.
Tanti bei concetti e parole, chilometro zero, rispetto della biodiversità, educazione all’alimentazione, cultura del territorio, sicurezza alimentare, mangiare locale, produzione su piccola scala, responsabilità verso l’ambiente, sovranità alimentare, orti sociali, commercio equo e solidale... Ma non una sola parola o un barlume nei confronti degli animali sacrificati per mantenere intatto un sistema alimentare basato sulla morte e non sulla vita. Esattamente l’opposto di quello che il rispetto della natura vorrebbe e una logica sana dovrebbe affermare come principio e come stile di vita.
Possibile che all’interno di un movimento che stava crescendo in alternativa allo sfruttamento indiscriminato e incosciente delle risorse naturali, lottando contro l’organizzazione perversa della produzione e della distribuzione alimentare che butta via più della metà del cibo che produce mentre miliardi di persone nel mondo muoiono di fame, nessuna voce si sollevasse in difesa della vita degli animali allevati allo scopo di essere uccisi e mangiati?
Le sembrava un’incongruenza enorme, anche perché il vegetarianesimo era l’unica soluzione possibile per risolvere i problemi della fame nel mondo. Forse i promotori di Slow Food e di Terra Madre non sapevano che lo spettro della fame nel mondo può essere debellato solo con la scelta vegetariana, e che a parte il discorso etico la carne è il cibo più antieconomico che si possa concepire. Che il costo globale della stessa quantità di proteine animali è molto maggiore delle corrispondenti proteine vegetali, e solo una minima parte del ciclo proteico e calorico con cui viene alimentato l’animale è consumato alla fine del ciclo di produzione in forma di carne. Con grande spreco di risorse e energia, per non parlare delle emissioni di gas metano nell’atmosfera dovute all’allevamento dei bovini, più pericolose dell’anidride carbonica.
E l’incongruenza abbracciava anche tanti movimenti animalisti in difesa dei cani abbandonati o delle balene in via di estinzione, per dirne solo alcuni. La maggior parte dei quali dopo essersi impegnata e aver lottato in difesa degli animali tornata a casa si sedeva davanti a un piatto di carne. Come se solo certe categorie di animali meritassero di vivere, e per risvegliare le coscienze bisognasse arrivare a essere in via di estinzione, mattati come le foche o torturati nei laboratori.
Si interrogava sulla logica e i sentimenti di un’umanità illuminata per certi versi e cieca per altri, che non riusciva a vedere l’egoismo e l’immoralità di una contraddizione così palese e ipocrita. O forse li vedeva, ma anteponeva ancora le ragioni del più forte a quelle del più debole. Ragioni oltretutto non di sopravvivenza ma di piacere, in una società che poteva benissimo vivere senza mangiare la carne. Non si trattava infatti dei popoli primitivi o degli indiani d’America legati alla cultura del bisonte, e nemmeno degli eschimesi costretti a cibarsi di ciò che l’ambiente permetteva. Ma del primo mondo, che dopo aver inquinato e distrutto la maggior parte del pianeta proponeva ora un’inversione di tendenza senza arrivare al nocciolo della questione.
Ipocrisia quindi ancora più grande, presentata come umanesimo consapevole volto a risolvere i problemi del mondo. Che nella loro visione restava sempre e comunque antropocentrico, come se gli animali allevati per essere mangiati non ne facessero parte e non avessero diritto alla vita, oggetti da consumare per il proprio piacere.
Anche la pietas delle religioni nei confronti dei più deboli non inglobava i diritti degli animali, e per la maggior parte dei cristiani, ortodossi, ebrei e musulmani il problema non si poneva. Altrimenti non ci sarebbe stato neanche il detto “il boccone del prete”, definendo così il pezzo di carne più prelibato riservato ai prelati. Se una scelta vegetariana c’era era puramente individuale, legata a un risveglio della coscienza dovuto a altri fattori, proprio come era successo a lei. Solo l’induismo e lo yoga proponevano il rispetto per la vita in maniera coerente e totale indicando il vegetarianesimo come l’unica scelta alimentare giusta e consapevole, spiegandone filosoficamente le motivazioni e gli aspetti positivi per l’individuo e la società. Ma non tutti gli induisti si astenevano dal mangiare la carne, e pur proclamandosi vegetariani tanti di loro mangiavano il pesce. Un vegetarianesimo così sui generis da non poter nemmeno essere considerato tale.
Una visione altrettanto ipocrita di quella di chi pretende di essere portatore delle soluzioni ottimali per creare un mondo migliore, senza includere nel pacchetto il rispetto per tutte le creature viventi. Migliore per chi, si chiedeva. Non certo per i miliardi di animali che le comunità di Slow Food avrebbero continuato a allevare, uccidere e mangiare, motivando il loro cannibalismo con parole come biodiversità e conservazione delle specie. Non era questo esattamente lo scopo di Pachamama creando le diverse specie di animali, e non era questo che un’umanità evoluta e moralmente consapevole era chiamata a realizzare.
Un futuro migliore doveva essere migliore per tutti e non per pochi, e non per la razza umana a discapito degli animali. Nel terzo millennio si poteva fare di meglio, e il risveglio delle coscienze doveva necessariamente inglobare questo aspetto, portando al rispetto della vita in tutte le sue forme. Parole come coerenza, consapevolezza e moralità dovevano ampliare il loro raggio, facendo capire alla gente che uccidere un animale è un peso insopportabile, un grave fardello individuale e collettivo e un grande dolore per la Madre Terra.
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