(Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio)
…venite in anticipo (...) con un bel panino con la mortadella…
(Massimo de Martino, invito a partecipare a una “serata Anam”, sulla newsletter del sito web www.tizianoterzani.com del 27 marzo 2006)
…era un brav’uomo, un lavoratore; aveva realizzato un allevamento biologico…
(messaggio apparso sul forum del sito web www.tizianoterzani.com)
…anche il mio essere vegetariano è una scelta morale. Ma come si può allevare la vita per ucciderla e mangiarsela?(…) Hai mai sentito gli urli di un macello di maiali? E come puoi poi mangiare il maiale?
(Tiziano Terzani, Anam il senzanome)
Già questa semplice sequenza di citazioni può indurci a riflettere su quanto è accaduto attorno alla figura e al pensiero di Tiziano Terzani dopo la sua morte: una rimozione totale di un aspetto fondamentale del suo pensiero, anzi del fulcro attorno a cui si muove tutto il resto, il “non togliere vita alla vita”, a qualunque vita. E’ un argomento cui Terzani dedica poche ma decisive pagine del suo libro Un altro giro di giostra, ma è in realtà un tema che pervade ogni sua pagina e che la motiva. E’ il vero punto d’arrivo di una ricerca partita dal desiderio di vincere il cancro e giunta a un lieve rapporto con la vita imparato insieme a un altrettanto lieve rapporto con il suo specchio, la morte vista come momento naturale dell’esistenza.
Ecco, cosa ne hanno fatto di tutto ciò?
In un primo tempo avevo temuto che, passato il breve periodo del successo commerciale, Terzani sarebbe stato dimenticato nella sua totalità, come è già accaduto a molti altri grandi del pensiero nonviolento. È invece accaduto di peggio: la macchina pubblicitaria dell’editore si è spinta fino a creare a sostegno del proprio business una sorta di pseudo religione, il “terzanismo”, che, per poter diventare fenomeno di massa, e dunque redditizio, doveva essere estremamente banalizzata e resa inoffensiva. Il risultato sta al pensiero di Terzani come una sigletta televisiva sta a una sinfonia di Beethoven: una profusione di massime orientali, di riferimenti alla reincarnazione conditi con un generico pacifismo, e chi più ne ha più ne metta; tutto ciò che può essere utile a creare un alone di inoffensiva consolazione, a circoscrivere terapeutici momenti di evasione che lasciano la propria vita e il mondo così com’è.
Alla fine tutto va messo alla prova: le idee, i propositi, quel che si crede di aver capito e i progressi che si pensa di aver fatto. E il banco di prova è uno solo: la propria vita. (…) A che vale predicare la non violenza se si continua a profittare del violento sistema dell’economia di mercato?
(…)
Ma noi siamo pronti a cambiare la nostra vita che nella maggior parte dei casi giusta non è? Cambiare è una delle cose più difficili da fare. Il cambiamento ci fa paura e nessuno vuole davvero correggere il proprio modo di vivere.
Terzani, dunque, sottolinea la necessità di tradurre in scelte, in atti concreti, le idee, i propositi, senza di che essi restano sterili esercitazioni intellettuali sfocianti inevitabilmente nell’ipocrisia. Al pensiero di Terzani, infatti, non ci si accosta come ad un’astratta dissertazione filosofica; esso indica un diverso modo di essere cui corrisponde, come parte indissolubile, un diverso modo di fare.
Ed egli è anche molto esplicito nel chiarire che l’orizzonte del cambiamento deve essere ben più ampio di quello racchiuso nel recinto, ormai sappiamo quanto asfittico, della società umana. Millenni di pensiero integralmente centrato sull’umano e cieco verso tutto il resto della biosfera, nel ruvido grembo del quale siamo tutti cresciuti, ci hanno condotto al disastro planetario. Allargare la nostra visione fino a comprendere in essa la totalità della biosfera è condizione necessaria per uscirne. E Terzani torna ripetutamente su questo tema:
Più ci inciviliamo, più ci allontaniamo dalla natura, compresa la nostra natura che è quella di essere parte del tutto.
(…)
Ero solo, ma dovunque posassi lo sguardo c’erano decine, centinaia, infinite altre esistenze. Dovunque c’era vita, in varie forme, in vari stadi: vita in continua creazione.
(…)
… acchiappavo con un fazzoletto le mosche entrate nella mia stanza per poi liberarle dalla finestra. (…) non perché pensassi che fossero la reincarnazione di qualcuno, ma perché mi pareva un modo per essere in armonia con gli altri esseri viventi, un’occasione per non togliere vita alla vita.
(…)
L’uomo deve sviluppare una nuova coscienza di sé, del suo essere al mondo, dei suoi rapporti con gli altri uomini e con gli altri esseri viventi. (…) Dobbiamo creare un movimento che alzi, in ogni modo possibile, il livello della coscienza umana verso (…) la interbeing consciouness, la coscienza dell’interdipendenza di tutti gli esseri viventi. (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra)
Apriamo a questo punto una breve parentesi per ricordare che la scelta vegetariana, da cui è partito il nostro discorso, accomuna molti dei grandi maestri della nonviolenza: Tolstoj, Gandhi, Lanza del Vasto, Capitini, Schweitzer lo erano. E il ricorrere di essa dall’uno all’altro, la sua costante presenza nel pensiero e nella vita di tutti loro ci fa pensare che il legame fra pensiero nonviolento e rispetto della vita in tutte le sue forme non sia un’opzione accessoria ma un legame irrinunciabile, necessario alla coerenza interna del pensiero stesso.
Quella del Terzani vegetariano infatti non è una posizione soggettivamente sentimentale, bensì una conseguenza inevitabile proprio dell’idea di unità e interdipendenza delle forme viventi (e, più in generale, di tutte le cose). Questa a sua volta è un’idea che percorre la storia del pensiero umano lungo un arco di molti secoli, che va dall’oriente all’occidente, dal buddhismo fino a quegli studi del MIT per il Club di Roma che, negli anni ’70 del XX secolo, applicarono per la prima volta la dinamica dei sistemi all’analisi del sistema mondiale.
In molti modi, in molte lingue, in molti sistemi di pensiero è stata detta la stessa cosa: che non può porsi alcun confine all’interno del pianeta, che non possiamo pensare e agire per compartimenti stagni perché tutto è interconnesso. Che non possiamo pensare di rispettare A e massacrare B perché A e B sono parti di una stessa cosa e noi siamo un’altra, interdipendente, parte di quella stessa cosa. Scrive a questo proposito Gianpietro Sono Fazion:
Il riconoscere che non esistiamo soli e che non siamo solo per noi, che ci troviamo all’interno di un unico fluire in cui la sola certezza è data dalla coscienza di un’incredibile molteplicità di relazioni, induce a considerare l’altro da un punto di vista originario, di eguaglianza. (Gianpietro Sono Fazion, Una stella a oriente)
Possiamo immaginare una pratica della nonviolenza che ammetta tali azioni? Possiamo farlo a una condizione: innalzare una barriera culturale fra noi e ciò che viene sfondato, sgozzato, squartato. Dobbiamo immergerci in un immaginario in cui noi e solo noi che siamo al di qua del confine siamo la Vita e tutti gli altri sono “cose”, “risorse”, infinitamente manipolabili, sfruttabili, cancellabili. Non soggetti, non esseri viventi, meno che mai esseri senzienti. Questo immaginario ha un nome: si chiama antropocentrismo, ed è nato per giustificare il dominio cruento dell’uomo su ogni altro membro delle comunità viventi della Terra. Condizione indispensabile a sua volta per consentire la crescita (velleitariamente) illimitata dell’uomo stesso.
Ma innalzare un confine significa negare l’interdipendenza di ciò che sta da una parte e dall’altra, significa pretendere che si possa agire a vantaggio di una parte sfruttando l’altra. Significa generare una cultura del dominio.
Ecco dunque perché Lanza del Vasto definiva il male come l’agire per un bene parziale, ecco perché Schweitzer definiva l’uomo giusto come «colui che, quando trova un lombrico che si è smarrito dopo un temporale e si sta seccando sull'asfalto rimette l'animale nell'erba senza chiedersi di quanta intelligenza o sensibilità o valore sia dotato», ecco perché la nonviolenza implica il rispetto necessario per ogni forma di vita senziente. A cominciare, ovviamente, dalle scelte relative alla propria vita materiale, fra cui quelle alimentari. Ecco dunque perché la scelta vegetariana deve considerarsi puramente consequenziale alla scelta nonviolenta.
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