Succede che orde di scienziati, ricercatori, ma anche chi con la scienza non ha apparentemente nulla a che vedere come missionari ed ambasciatori, sono da tempo impegnati nel cercare, trovare e acquisire, in Asia, Africa ed America Latina - che con la foresta Amazzonica costituisce un territorio ricchissimo di biodiversità - ritrovati e segreti che appartengono alle popolazioni indigene. È così che le grosse multinazionali farmaceutiche riescono ad allargare il loro bacino di profitto equiparando, attraverso i brevetti, prodotti di sintesi creati materialmente in laboratorio con sostanze che invece si trovano liberamente in natura, che nessun uomo ha creato artificialmente e sulle quali, quindi, la politica dei brevetti finisce per essere illegale.
È successo così per lo Hoodia, un cactus che i Kung del Kalahari ed i San, Boscimani del Botswana, utilizzano per combattere i morsi della fame durante le battute di caccia. Nel gambo della cactacea, infatti, è conservato un principio attivo capace di dare un prolungato senso di sazietà. Nel 2000 il gene della pianta, ribattezzata P-57 dal Council for Scientific and Industrial Reserach, in Sudafrica, viene brevettata dalla Phytopharm, piccola azienda farmaceutica inglese la quale per 21 milioni di dollari da alla Pfizer la licenza esclusiva di utilizzo. In un mondo in sovrappeso la scoperta del cactus spezza-fame si trasforma in una vera e propria miniera d’oro.
Lo stesso vale per la Vinca Rosea, pianta del Madagascar dalla quale la Eli Lilly & Co. di Indianapolis ha tratto due farmaci di successo la Vincrastina e la Vinblastina; oppure per la Pentadiplandra brazzeana, conosciuta come J’Oblie, una bacca africana di cui l’Università del Wisconsis ha brevettato una proteina per farne un dolcificante.
Non sono al sicuro neanche le bevande tradizionali da quando il Pozol, bevanda dei campesinos messicani ottenuta diluendo una pasta di mais fermentata in acqua è entrato nelle mire dell’industria olandese Quest International e dell’Università del Minnesota che insieme hanno brevettato un batterio della bevanda in grado, con la proprietà di impedire la decomposizione degli alimenti, di fungere la conservante naturale. Tra la Guinea ed il Brasile gli indios Waphisana utilizzano il Tapir, la noce dell’Ocotea Rodiati come contraccettivo, antiemorragico e disinfettante. Il Chimico britannico Conrad Gorinsky ha ottenuto dei brevetti per delle sostanze isolate dal Tapir; così come il trafficante di legname Robert Larson riuscì a brevettare il Nim, albero indiano che funge da pesticida naturale, e venderlo immediatamente all’Industria Wr Grace.
La biopirateria, però, non colpisce solo le piante. Celebre è il caso delle 750 rane della specie Epipedobates tricolore, trafugate nel 1998 in Ecuador dalla Abbot Latoratories di Chicago, per produrre la Epibatidina, un analgesico brevettato negli Usa molte volte più efficace e forte della morfina.
Quello della biopirateria è un mercato estremamente redditizio che si aggira intorno ai 5000 milioni di dollari, terzo solo a quello delle armi e della droga. Il valore commerciale dei prodotti farmaceutici elaborati grazie ai brevetti sulle piante è di circa 147 milioni di dollari, senza che alcun corrispettivo spetti alle comunità locali.
Laddove si è potuta ottenere qualche vittoria sui giganti farmaceutici si è trattato pur sempre di una vittoria effimera e temporanea. Il caso della Ayahuasca ecuadoriana è emblematico. Si tratta di una bevanda ottenuta bollendo una liana e foglie di arbusto. Loren Miller, proprietario della International Plant Medicine Corporation, industria farmaceutica nordamericana, brevettò la pianta, ma nel 1996, grazie all’azione del Coordinamento delle Organizzazioni Indigene della Conca Amazzonica improntò un ricorso contro Miller, vincendolo. Il brevetto fu ritirato, ma Miller nel 2001 riuscì ad ottenerlo nuovamente.
Vi è tuttavia un altro volto della biopirateria, plasmato dal cambiamento climatico e dal tentativo di costruire colture geneticamente modificate in grado di resistere a particolari stress ambientali.
È questa la nuova frontiera attraverso la quale le industrie biotech dimostrano di essere in grado di produrre i cosiddetti geni “climate-ready”, che permettono alle colture di sopportare siccità, alluvioni, salinizzazione del terreno, aumento delle temperature, ovvero tutte quelle conseguenze previste dal cambiamento climatico. Come al solito, però, la tecnologia che si vanta di essere innovativa e soprattutto indispensabile, arriva sempre in ritardo rispetto alla natura ed all’esperienza dei contadini poiché, osserva Vandana Shiva, “i tratti di resistenza al clima che i giganti della biotecnologia agricola hanno brevettato sono il risultato di evoluzioni secolari nelle tecniche agricole dei contadini”. La stessa Shiva con il gruppo da lei fondato, la banca di semi di “Navdanya”, ha riportato nel 2001 un importante successo sulla multinazionale Usa RiceTec la quale pretendeva la proprietà intellettuale sui tratti dei semi della varietà di riso basmati a chicco lungo di sua produzione. Dopo la dimostrazione che quella varietà di riso in realtà conteneva materiale genetico sviluppato dalle varietà degli agricoltori, alla Usa RiceTec fu respinta la richiesta del brevetto.
I vari imperi multinazionali che siano Monsanto, Dupont, Basf Bayer, Syngenta sono in prima linea nel brevettare i cosiddetti geni climatici per i quali hanno depositato 532 brevetti raggruppati in 55 famiglie, che non avranno come conseguenza - questo è l’allarme lanciato da Etc group - quella di aiutare i piccoli agricoltori a sostenere i rischi del cambiamento climatico, ma solo di concentrare il potere delle multinazionali, aumentare i costi, inibire linee di ricerca indipendenti e soprattutto mettere a rischio la libertà degli agricoltori di conservare e scambiare liberamente tra loro le sementi.
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