Premi Nobel o meno, Barack Obama sta iniziando a fare i conti con i primi insuccessi della sua preconfezionata popolarità. All’interno degli stessi Stati Uniti, infatti, non si vedono più solo schiere di persone piangenti ed urlanti che, fotocamera alla mano, si abbandonano alla commozione nel vedere il loro beniamino, sperando o credendo che quello possa davvero essere il cambiamento di cui abbiamo tutti bisogno (ossia un cambio di paradigma sia culturale che politico, non certo di un presidente nuovo di zecca comparso quasi dal nulla), ma piovono da più parti critiche sulle sue politiche e sulle sue sempre più evidenti ambiguità, che partono dal sistema sanitario ed arrivano fino alle politiche economiche. Passando, inutile dirlo, da un estremamente contraddittorio approccio con quella che anche il presidente democratico chiama la green economy (rimarrà nella storia anche il suo celebre discorso a Copenhagen sulle misure da adottare per sconfiggere il caos climatico in corso: discorso assolutamente vuoto e privo di un barlume di desiderio di cambiare la situazione attuale).
Sia il centro che il sud America hanno iniziato ad alzare la testa. Infatti, il declino dell’egemonia USA è risultata particolarmente evidente con il recente summit di Cancun, in Messico, durante il quale i 32 Paesi dell’America latina, appunto, hanno deciso di escludere esplicitamente dall’evento i due giganti nord americani, Stati Uniti e Canada. “Per la prima volta dopo secoli di soggezione”, scrive Peace Reporter, queste nazioni “hanno deciso di creare un organismo sovranazionale americano, escludendo a tutti gli effetti l'America del Nord. Si tratterà di un blocco alternativa all'ormai logora Osa, Organizzazione stati americani, da 50 anni il principale forum per le questioni regionali, capeggiato e soggiogato in tutto a Washington”.
Si è parlato di molto altro il 22 e 23 febbraio a Cancun, dai disastri di Haiti (per la quale è stato deciso un piano a lungo termine di aiuti) e del Cile, alla nuova aggressione britannica nelle isole Malvinas, meglio note col nome inglese Falkland, dovuta al desiderio della corona di avviare delle nuove trivellazioni ed esplorazioni petrolifere (o forse verrebbe da pensare, ricordando la famosa guerra del 1982, all’attuale necessità di risollevare la popolarità del primo ministro inglese, come avvenne a suo tempo per Margaret Tatcher, che passò dal 22% prima della guerra al 59% dopo, salvandosi così la carriera politica), ma l’avvio concreto di una unione continentale che escludesse la Casa Bianca ed includesse Cuba (sospesa dall’OSA già nel ’62) è sicuramente stato il punto forte di questo incontro.
E favorevole anche il Brasile, orientato soprattutto ad una comunione di mercati che rafforzino l'economia latinoamericana.
Chissà se riusciranno davvero i Paesi dell’America latina ad uscire dalla totale (o quasi) dipendenza dal colosso nord-americano. Certo sarebbe opportuno, come prima cosa, lasciare da parte dissapori che corrono fra di loro, come quelli particolarmente accesi fra Hugo Chavez ed il colombiano Alvaro Uribe, noto per la sua fraterna vicinanza con Washington (confermata dall’installazione di ben sette basi statunitensi in Colombia). Ma di sicuro i governi sud-americani, seppure senza una moneta unica né un abbattimento delle frontiere, ben lungi dall’avvenire, stanno mostrando nei confronti dell’unica super-potenza rimasta un’indipendenza ben superiore a quella che avrebbe potuto caratterizzare l’Unione Europea. UE che, invece di afferrare l’opportunità storica che le si è presentata in questi ultimi anni con la crisi americana (quella di tornare ad avere un ruolo realmente egemone a livello mondiale, con conseguente possibilità di promuovere a livello globale politiche virtuose ed economie sostenibili), ha abdicato sin dall’inizio la sua (pseudo)sovranità. Rimanendo, come da sessant’anni a questa parte, un gigante economico, ma un nano politico. E continuando ad imitare gli USA, invadendo altri Paesi con “missioni di pace”, o con “pacifiche” trivellazioni petrolifere.
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