Perfino l’ottimistico modello Unieuro di Silvio Berlusconi sembra venire meno, di fronte al fatto che durante il G8 di Roma è stata ventilata la perdita di 20 milioni di posti di lavoro a livello mondiale entro il 2010.
Consumi che si contraggono notevolmente, fabbriche che chiudono o delocalizzano la produzione nei paesi a basso costo di manodopera, opportunità di lavoro che si riducono drasticamente, tenore di vita di molte famiglie in caduta libera, insofferenza sociale che in alcuni paesi (non l’Italia) sta iniziando a raggiungere il livello critico, sono tutti elementi di una nuova realtà, per molti versi antitetica rispetto a quella degli ultimi decenni del secolo scorso, vissuti all’insegna della crescita e dello sviluppo.
Alcuni elementi di questa nuova realtà, la diminuzione del Pil e della produzione su tutti, potrebbero indurre a credere che la profonda recessione (parola sdoganata solo di recente) in cui siamo entrati, somigli in fondo molto da vicino alla società della decrescita, teorizzata da lungo tempo da molti studiosi, fra i quali Serge Latouche, Maurizio Pallante, Nicholas Georgescu-Roegen, Alain De Benoist e Gilbert Rist.
Sempre più frequentemente chi ha una conoscenza parcellare dell’argomento, non avendo potuto o voluto studiarlo più in profondità, sta maturando la percezione che la decrescita felice di Pallante o quella serena di Latouche non siano molto diverse dall’Italia (o per meglio dire l’Europa) che giocoforza sarà costretto a vivere nel corso dei prossimi anni.
Questa percezione, basata sul fatto che la diminuzione del Pil e la riduzione dei consumi superflui costituiscono parte integrante della filosofia della decrescita, risulta profondamente sbagliata, poiché il pensiero della decrescita rappresenta in realtà l’antitesi della situazione che stiamo vivendo, caratterizzata da una società profondamente malata che non riesce più a crescere, pur rimanendo fondata sui dogmi della crescita e dello sviluppo.
La diminuzione del Pil a lungo auspicata dai fautori della decrescita non è quella determinata dalla chiusura generalizzata delle fabbriche e degli esercizi commerciali, che si traduce nella profonda disoccupazione, nella carestia e nell’emarginazione sociale. Bensì una riduzione del Pil ottenuta riducendo gli sprechi ed i consumi superflui, per indirizzare le risorse risparmiate verso la creazione di opportunità occupazionali più abbondanti e gratificanti di quelle finora offerte dalla società della crescita.
Così come la diminuzione del consumo di merci (acquistate per mezzo del denaro contribuendo ad innalzare il Pil) non sottende stenti e privazioni, dal momento che esse saranno sostituite dai beni ottenuti attraverso l’autoproduzione, lo scambio ed il dono, che non incrementeranno il Pil ma risulteranno di maggiore qualità.
Nel pensiero della decrescita si auspica la costruzione di una società che sostituisca la macroeconomia globalizzata con microeconomie autocentrate, che valorizzi le risorse locali e le identità culturali, interpretando la diversità come un valore aggiunto da non disperdere attraverso l’appiattimento e l’omologazione.
Ripopolare le campagne e le montagne riscoprendo un rapporto armonico con l’ambiente nel quale viviamo, recuperando la ciclicità dei ritmi naturali è certo più stimolante rispetto a continuare a vivere nelle periferie delle grandi metropoli atomizzate, incolonnandosi sulle tangenziali nelle ore di punta per poi rinchiudersi fra il cemento dei quartieri dormitorio.
Riscoprire i rapporti di vicinato, la convivialità, la capacità di donare e ricevere, accresce la nostra interiorità molto più di quanto non accada oggi nella nostra realtà quotidiana sterilizzata dove “gli altri” vengono considerati semplicemente degli avversari con i quali competere in maniera sfrenata. Lavorare in prossimità delle proprie abitazioni rifuggendo il pendolarismo esasperato, valorizzando le proprie qualità, in un clima sereno dove la cooperazione sostituisca la competizione, rappresenta senza dubbio un’esperienza più creativa rispetto a quella che generalmente sperimentano milioni di persone fra i gironi di quell’inferno dantesco che è il “mondo del lavoro” attuale.
In sostanza la decrescita è quanto di più lontano possa esistere dalla società basata sulla crescita e sui consumi smodati, che stiamo vivendo nella sua fase terminale, costituita da una profonda recessione. Al tempo stesso ne costituisce l'alternativa naturale, probabilmente l’unica in grado di fare fronte agli effetti devastanti determinati dal crollo di un modello di sviluppo dimostratosi impraticabile.
Articolo tratto da Il Corrosivo
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