La crisi globale, in quanto tale, ha colpito ormai anche il colosso asiatico, il quale si ritrova migliaia di imprese che dipendono fino all’80% dalle esportazioni in Europa ed America, entrambe colpite, come ben sappiamo, dalla recessione.
È proprio questa l’origine del cortocircuito cinese: l’improvvisa frenata degli ordini di merce giunti dall’Occidente. A luglio le esportazioni sono infatti calate del 22,9%, ed anche in questi giorni molte fabbriche stanno chiudendo, dato che gli ordini che si attendevano per il Natale 2009 (elettrodomestici, high-tech, giocattoli, abbigliamento) non sono arrivati.
Questa inattesa battuta d’arresto ha provocato un calo del giro d’affari tra il 25 ed il 40%, venti milioni di “disoccupati made in Usa”, una deflazione con prezzi al consumo in picchiata (-1,8%) ed una drastica diminuzione (questo non è così un male, almeno dal punto di vista ambientale) dei consumi elettrici, in gran parte di origine industriale, arrivata al 48%.
A che cosa ha portato tutto ciò? Alla disfatta precoce di quella che stava diventando la nuova classe media ed al forzato ritorno all’agricoltura della metropolitanizzata “generazione Ikea”. Si, perché come scrive Giampaolo Visetti sulle pagine di Repubblica, mentre «il consumatore globale aspetta, l’ex coltivatore di riso cinese, che nel frattempo ha ceduto la sua terra, perde il posto». E ancora: «Si spopolano, e cadono in rovina, avveniristiche e sconfinate periferie urbane, appena costruite. Le campagne antiche dell’interno, rimaste prive di servizi, popolate di vecchi, scoppiano e si gonfiano di baracche».
Ma è davvero così? Il messaggio del governo sembra perentorio: le previsioni di crescita occupazionale, parecchio ottimistiche anche in questo momento, sono una priorità e devono avverarsi. E speriamo sia così, perché , come dice Shi Xiao, direttore dell’Osservatorio sociale di Shanghai, «è il lavoro il vero nervo scoperto di questo potere. Ha puntato tutto sul denaro, facendo dimenticare al Paese i suoi diritti. Se fallisce sull’occupazione, il governo potrebbe presto sentirsi rivolgere domande sulla democrazia».
I nuovi disoccupati della costa meridionale della Cina continentale e in particolare provenienti dal Guangdong, spaventano molto più di tibetani e uiguri (altra minoranza etnica turcofona ed islamica che vive nel nord-ovest del Paese), poiché da minoranza gli ex operai disoccupati potrebbero diventare maggioranza ed incrinare “il trionfante nazionalismo capitalista degli han”.
A chi invece un lavoro in questi ultimi mesi è rimasto (spesso in cambio di “anticipi retributivi” fornite alle ditte, con la promessa di riceverli entro quattro anni – cioè pagando per lavorare!), lo stipendio medio è calato di oltre il 5%, portando la media nazionale a 160 euro al mese. Nessuno in Cina si aspettava questi tagli occupazionali in imprese privatizzate per il 95% negli ultimi trent’anni, e dei 225 milioni di contadini cinesi che dal 2000 ad oggi si sono trasformati in operai, come già detto, venti sono dovuti tornare sui propri passi.
Forse l’unica cosa di cui hanno bisogno i cinesi è ottimismo.
Un po’ come per gli italiani che possono far fronte alla crisi con un rilancio dei consumi da praticare con un bel sorriso stampato in faccia. E se lo possiamo fare noi, figuriamoci i cinesi, ancora galvanizzati dall’euforia di una crescita economica mai vista prima.
Nello sfacelo cinese in corso, infatti, gli unici dati in crescita riguardano la vendita di automobili (+63,6% solo nel mese di luglio), grazie agli incentivi dello Stato ed agli sconti fiscali che possano tenere in piedi, ancora per un po’, il “miracolo cinese” ed il perentorio ordine di una crescita occupazionale che già non c’è più.
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Mi sembra che, salvo rare eccezioni, né gli occidentali né i cinesi lo abbiano capito e continuino a inseguire il mito della crescita illimitata, nonostante l'evidenza.