La Russia, principale estrattore mondiale di gas naturale, rifornisce, oltre all’Europa, anche molte ex repubbliche sovietiche, fra le quali l’Ucraina. Ma mentre i contratti con le nazioni europee hanno una durata di quindici o vent’anni, quelli stipulati con molti paesi ex sovietici vengono rinegoziati ogni anno, consentendo ai russi una contrattazione ricattatoria. Così, paesi come la Bielorussia, amichevoli con Putin e Medvedev, da anni strappano a Gazprom condizioni favorevoli, mentre gli stati più ostili alla Federazione russa sono esposti agli umori del suo governo, che si riflettono sul prezzo del gas.
E’ ciò che capita all’Ucraina, che fa parte di un’implicita nuova sfera d’influenza pretesa da Putin. E non è un caso che fra i due paesi le dispute energetiche si siano riproposte a intervalli regolari negli ultimi anni. Ma Kiev nel 2008 ha anche subito un grave contraccolpo economico dovuto alla crisi globale. E tutto questo accade proprio negli anni in cui Gazprom ha cominciato a richiedere che anche i paesi dell’area ex sovietica comincino, dopo anni di tariffe calmierate, a pagare il gas a prezzo di mercato.
Arriviamo così all’attuale crisi, che pure sembra essersi risolta ieri con un accordo decennale. La Russia ha accusato l’Ucraina di sifonare illegalmente del gas dalle condotte per le esportazioni in Europa che passano dal suo territorio; Kiev ha smentito e accusato Mosca di avere rincarato in modo ingiustificato i prezzi del gas a lei destinato; Mosca ha replicato lamentandosi per l’eccessivo aumento delle tariffe per il diritto di transito in Ucraina del gas diretto in Europa. Sospetti furti, ricatti, truffe, ripicche. Così Mosca stacca il gas a Kiev, e Kiev chiude i rubinetti di transito per l’Europa. Siccome circa l’80% dei gasdotti che raggiungono il nostro continente dalla Russia attraversano l’Ucraina, si capisce la rilevanza della crisi non solo per i due paesi, ma anche per l’Europa. Soprattutto per i tanti paesi dell’est che ricevono dalla Russia il 90%, o anche il 100%, del gas che importano, e per i quali un inverno al freddo sarebbe un rischio concreto.
In questa partita l’Italia non è uno dei paesi europei più sguarniti. E’ vero che storicamente il nostro paese deve importare quasi tutti i combustibili fossili di cui ha bisogno, ma lo fa da fonti e paesi abbastanza diversificati. La dipendenza nazionale dal gas è del 38% per il fabbisogno energetico complessivo, e i flussi dalla Russia costituiscono poco più del 30% del totale delle importazioni; l’Algeria ce ne vende di più. Non sono dunque valori tali da preoccupare il governo. Anche qualora il disaccordo fra Russia e Ucraina proseguisse, sembra sicuro che concluderemo la stagione al caldo; al massimo quello che si teme è la copertura di particolari e non prevedibili picchi di domanda.
Il problema è, piuttosto, e ancora una volta, il futuro: quali strategie ha in mente l’Italia per smarcarsi dall’imprevedibilità delle forniture russe, così legate a variabili geopolitiche? Il ministro delle Attività produttive Scajola, in accordo con la ministra per l’Ambiente Prestigiacomo, ha già esternato il suo appoggio a un ritorno al nucleare. Che però, quand’anche si superassero i dubbi sulle scorie e sulla tipologia degli impianti, non potrà comunque essere un rimedio né massiccio, né veloce, considerati costi e tempi di realizzazione delle centrali.
Sembrano, dunque, più numerose le idee che i fatti. E anche queste restano nell’alveo di soluzioni di natura commerciale, che mancano di una visione strategica ed ecologica più ampia. Al suo interno starebbe anche il progressivo affrancamento dai combustibili fossili, cioè il contrario esatto di quanto implicato da un investimento così massiccio sui rigassificatori. Così, il rischio (teorico) di un inverno russo in Italia sembra, al massimo, il pretesto per riproporre programmi nati su altri tavoli e per altri motivi.
19 Gennaio 2009 - Scrivi un commento