Un passo avanti e uno indietro, gli Stati Uniti non sanno in che direzione muoversi per giungere alla cruciale conferenza internazionale sul clima di Copenhagen. A fine anno in Danimarca si discuterà il nuovo e più stringente accordo globale sulle emissioni, che archivierà il Protocollo di Kyoto e disegnerà le strategie contro il riscaldamento globale. Un appuntamento che l’Onu definisce decisivo. Gli Stati Uniti, di recente sorpassati dalla Cina per emissioni assolute di CO2, restano di gran lunga i principali inquinatori pro-capite del pianeta. Senza un loro concreto coinvolgimento, qualsiasi accordo risulterebbe zoppo, come si è visto nel caso di Kyoto.
In questi giorni nel senato americano si svolge una guerra di logoramento intorno alla nuova legge quadro sul clima. I democratici puntano a ridurre nel 2020 le emissioni di CO2 del 20% rispetto ai livelli del 2005, in particolare attraverso un mercato “cap and trade” delle emissioni stesse. Ma la discussione è in stallo. Al punto che Carol Browner, una dei principali consiglieri di Barack Obama sull’energia, ha detto pubblicamente di ritenere improbabile un accordo su questa legge entro la fine dell’anno. Vale a dire che gli Stati Uniti si siederebbero al tavolo di Copenhagen a mani vuote, senza una posizione credibile né incisiva sul clima, sgonfiando per buona parte le speranze della conferenza.
Ancora una volta, come nel caso della riforma sanitaria, il senato americano diventa il collo di bottiglia che strozza le riforme più o meno radicali desiderate da Barack Obama. Sullo sfondo della discussione sul clima si sperimentano le geometrie variabili di un senato che non è diviso semplicemente fra democratici e repubblicani. Alcuni senatori della maggioranza democratica, come quelli del distretto metalmeccanico che gravita intorno al Michigan, sono restii a firmare una legge troppo vincolante. D’altra parte fra i repubblicani moderati si trova chi è disposto a dialogare.
Ciò che si intravede chiaramente dietro il dibattito politico sono le pressioni dei diversi gruppi industriali dell’energia e non. In soccorso del fronte favorevole alla legge, 150 imprenditori hanno incontrato l’altroieri il segretario all’energia Steven Chu. Molti di loro operano nel settore delle rinnovabili. Facendo sponda agli imprenditori, Chu ha richiamato l’urgenza per gli Stati Uniti di agganciare l’imminente rivoluzione industriale verde e ha congedato gli ospiti chiedendogli esplicitamente di premere sui loro senatori di riferimento perché approvino la legge.
Dunque un mercato delle emissioni in cambio di un rilancio del nucleare. E tanti dettagli tecnici, ma di significato ben più ampio, ancora da soppesare. Cosa pensi Barack Obama di tutto questo non si sa. Il presidente americano al momento non va oltre le enunciazioni di principio, anche se se ne coglie la frustrazione. Il premio nobel per la pace, come già successe per Al Gore nel 2007, ne rinforza il prestigio, gli fornisce una nuova sponda per rilanciare la sua azione. Ma dopo essersi speso con tanta determinazione sulla riforma sanitaria – anch’essa bloccata in parlamento – non si capisce quanto possa permettersi di forzare il passo su altri fronti. Anche la sfiducia esternata da Carol Browner pochi giorni fa è stata letta come un possibile segnale dell’arrendevolezza di Obama su un accordo sul clima.
Eppure si dice che questa legge abbia più chances della riforma sanitaria, potendosi comunque assestare su un compromesso fra lobby industriali contrapposte. Un po’ di nucleare di qua e un po’ di solare di là, qualche concessione per le ricerche petrolifere nel Golfo del Messico in cambio di una spintarella all’eolico. Resta da capire se questo genere di accordo sia meglio di nessun accordo. A Copenaghen, sospirando, probabilmente direbbero che sì, forse è meglio un qualche tetto alle emissioni, e il relativo mercato. Ma poi resterebbe ancora una distanza da misurare: quella fra il respiro corto della politica e lo sguardo lungo della scienza.
8 Ottobre 2009 - Scrivi un commento