“Sviluppo”, nella sua etimologia, racchiude, o vorrebbe racchiudere, il seme del miglioramento. Eppure, rispetto a quando il concetto di sviluppo è nato, i poveri verso i quali esso dovrebbe dirigersi sono aumentati ed in molti casi la loro povertà deriva proprio dalla confusione che lo sviluppo ha portato nelle loro esistenze.
Infatti, mentre un tempo le popolazioni erano autosufficienti e producevano quanto bastava per il loro sostentamento, oggi, invece, si assiste a quella che è da più parti considerata una epurazione da sviluppo: veri e propri pogrom che assumono le sfumature di una pulizia etnica che spazza via intere popolazioni, per la maggior parte minoranze etniche, fuori dalle terre dei loro padri, violando i loro luoghi sacri, alterando e compromettendo per sempre l’ecosistema.
Per cosa? Costruire strade, innalzare dighe, deviare fiumi. Addirittura, per costruire riserve naturali, si scacciano le popolazioni che vivono su quelle aree perché non disturbino i turisti o i cacciatori durante i safari!
Una concezione tutta occidentale di progresso, adagiata sui fasti della rivoluzione industriale e sul meccanismo che, a partire da essa, ha costituito la base sulla quale poggiare il costrutto del cosiddetto sviluppo, il cui scopo è la crescita economica e l’accumulazione del capitale legati al progresso, all’universalismo ed al controllo della natura.
Serge Latouche, però, nel saggio Come sopravvivere allo sviluppo ci spiega che lo sviluppo così strutturato non risponde necessariamente ad aspirazioni universalmente condivise, ma, piuttosto, è l’espressione di quello che è stato l’iter storico occidentale che si è tentato di esportare in altre realtà ben diverse e distanti dal modello prevalente.
Negli anni le varie teorie dello sviluppo hanno contribuito a fornire modelli di sviluppo e chiavi interpretative del sottosviluppo, ma nessuna è stata in grado di staccarsi da quella convinzione che il benessere di un Paese passa dalla crescita del suo prodotto interno lordo.
Ad esempio, la teoria della modernizzazione poggiava sull’assunto che il modello di sviluppo americano potesse e dovesse essere il paradigma inconfutabile valido per tutte le realtà, indipendentemente dal contesto spazio-temporale, e che avesse come fine l’accumulazione di capitali, il progresso e lo sviluppo tecnologico.
Ciò ha evidentemente dei risvolti problematici.
Una delle conseguenze della crescita economica, infatti, è quella di offrire alla popolazione una gamma più vasta di scelte. In questo modo, però, se da un lato le tecniche moderne permettono di accrescere il numero di merci immesse nel mercato, dall’altro fanno scomparire i vecchi sistemi tradizionali di produzione, implicando una serie di processi che spingono nell’oblio le tradizioni e le culture etniche; inoltre, premendo verso l’industrializzazione, creano certamente nuovi sbocchi lavorativi, ma, allo stesso tempo, deprimono la creatività e la possibilità di conquistarsi il riconoscimento sociale.
Allora, di che sviluppo si parla quando per raggiungere un determinato grado di benessere si passa per l’annichilimento dell’individuo, per la razzia delle risorse naturali, per l’inquinamento dell’acqua, dell’aria e della terra? Semplice, è lo sviluppo che apre all’occidente nuovi varchi economici, nuovi spazi commerciali in cui riversare le proprie merci in un’iniqua suddivisione internazionale del lavoro.
Qualcuno ha provato anche ad inventarsi una nuova teoria dello sviluppo, quella legata alla creazione di un nuovo ordine economico internazionale. Indovinate quali erano i suoi capisaldi? La crescita economica, l’espansione del commercio internazionale e l’aumento dell’aiuto concesso dai paesi industrializzati. Sebbene il Nieo fosse stato percepito come espressione della rivolta del terzo mondo, esso propone di realizzare quello che è in realtà uno degli scopi principali del capitalismo mondiale: integrare meglio i Paesi periferici nel sistema al fine di assicurare la crescita continua.
Crescita, crescita e ancora crescita. Come diceva Mike Bongiorno “Sempre più in alto!”
Nell’economia e nelle teorie dello sviluppo si è affermata la convinzione che per aumentare il livello di benessere di un paese povero bisogna per forza industrializzarlo, imporgli programmi di aggiustamento strutturale devastanti, costringerlo ad una monocoltura intensiva tutta orientata al commercio e mai all’autosostentamento. In questo modo si innesca un processo mostruoso di debito, povertà, fame, suicidi.
I Paesi poveri, per sopravvivere, sono costretti a chiedere prestiti alla Banca mondiale o al Fondo Monetario Internazionale. I prestiti hanno degli interessi che i Paesi poveri non riescono a rimettere finendo per invischiarsi sempre di più nel pantano dei debiti, strumento prezioso nelle abili mani occidentali che lo fanno lievitare attraverso quella strana cosa che chiamano Aiuto pubblico allo sviluppo, che ha un prezzo e spesso serve a smaltire il capitale in eccesso che non si riesce ad investire altrove (gli anni Settanta, a proposito, insegnano molto).
La logica è questa: se aumenta il Pil aumenta la ricchezza, se aumenta la ricchezza le persone hanno più soldi in tasca, possono spendere e contribuiscono alla crescita economica del proprio Paese.
Oppure, si tracciano grosse strategie alimentari che prevedono il cosiddetto “aiuto di emergenza”, che non è altro che il rifornimento a fondo perduto fatto alle popolazioni che attraversano periodi di carestia, come se fosse una sorta di beneficienza. In un’ottica rovesciata, però, della beneficienza non resta nulla poiché quelle tonnellate di cereali, quelle tonnellate di latte in polvere non sono altro che merce da smaltire, che non trova spazio nel mercato e che quindi va a finire come obolo alle popolazioni povere, che spesso non sono preparate, dal punto di vista fisiologico e sanitario, a cibarsi di quei prodotti occidentali (Nestlé docet).
Insomma, siamo in presenza di una logica paradossale che fa dello sviluppo il primo artefice del sottosviluppo, con 2,8 miliardi di persone nel mondo ridotte alla fame dalla spirale del capitalismo che in sessant’anni di sviluppo ha creato, come dice Meggie Black, un apartheid socioeconomico di portata globale, piccoli arcipelaghi di ricchezza situato all’interno e tra gli stati nazione e circondati da un’umanità impoverita.
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