Dichiarando guerra alla “religione delle cifre” ed al “culto del mercato”, il capo di stato francese ha presentato il rapporto della Commissione da lui stesso incaricata di indagare sui limiti del Pil e su come sostituirlo.
Hanno presieduto la Commissione due economisti del calibro di Stiglitz e Sen, entrambi premi Nobel. Ne ha fatto parte anche l'italiano Giovannini, neo-presidente dell'Istat.
Il Pil non misura il benessere, né il progresso. In realtà non misura precisamente neanche la crescita economica stessa.
Sarkozy si farà promotore del superamento del Pil a livello europeo. Forse si troverà a sfondare una porta aperta, visto che la stessa Ue due anni fa ha organizzato una conferenza intitolata proprio “Oltre il Pil”, nella quale ha sancito che il Pil non misura il benessere. Non si tratta di iniziative isolate.
Sia le istituzioni internazionali che quelle nazionali, infatti, in ogni parte del mondo sembrano aver ormai accolto la critica al Pil e proclamano la necessità di elaborare nuovi indicatori, capaci di cogliere aspetti che abbiano una maggiore connessione con la vita reale delle persone. Il discorso nel quale Robert Kennedy dichiarò che “il Pil misura tutto tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta” non ha mai ricevuto tante citazioni.
Nei mezzi di comunicazione “mainstream” il Pil è ancora un feticcio. I dati trimestrali ed annuali sulla variazione del Pil pro-capite sono ancora attesi in un modo che ricorda quasi l'attesa per il responso di un oracolo.
Le istituzioni che si affannano nel tentativo di andare “oltre il Pil”, sono guidate dagli stessi uomini politici che nei loro programmi di governo, così come nei programmi elettorali dei propri partiti, mettono la crescita del Pil al primo posto tra le priorità nazionali.
Soltanto che ora lo fanno con la consapevolezza che esso non è realmente indicativo della condizione delle persone né dello stato dell'economia.
Per uscire da una crisi che ha messo in luce le evidenti criticità di un modello di sviluppo basato sulla crescita economica, l'unico antidoto che viene proposto è la “ripresa economica”. Cioè la crescita.
Qual è il motivo di questa incoerenza, di questa discrepanza tra ciò che viene proclamato e la prassi che si continua ad applicare?
La spiegazione di questa apparente illogicità si può ricercare nella natura strutturale della società nella quale viviamo, nella forma di integrazione con l'economia che questa società presenta.
Bisogna, in altre parole, interrogarsi sul posto che l'economia occupa nella società.
Nelle economie di mercato, così come si configurano oggi, l'economia è “scorporata” dal sociale, sono le relazioni economiche a plasmare i rapporti sociali, e non viceversa.
“Società della crescita”, la chiama Latouche. La sfera economica ha invaso gli ambiti sociali indebolendo i rapporti interpersonali. Il mercato ha inglobato e mercificato una frazione sempre maggiore dell'attività umana.
In una società organizzata in questo modo, la crescita del Pil è necessaria per sostenere l'occupazione, concedere aumenti di reddito, pagare le pensioni, offrire servizi pubblici. Quando essa viene a mancare, il sistema va in crisi. La parola recessione provoca giustamente ansia.
Questo perché i movimenti di risorse sono determinati quasi totalmente dai meccanismi di mercato, mentre le transazioni basate su reciprocità, economia domestica e redistribuzione sono state ridotte ai minimi termini.
Si tratta di un sistema nel quale l'uomo non ha una posizione centrale, il suo benessere non è il fine ultimo dell'attività economica.
Ciò non toglie nulla alla giustezza delle analisi che criticano l'identificazione della crescita col benessere. Al contrario le avvalora dal momento che la “società della crescita” non è la società della qualità della vita, ma la società del profitto, della mercificazione, delle crisi, della diseguaglianza.
Per ridurre l'impronta ecologica e l'utilizzo di risorse non-rinnovabili bisognerebbe abbassare il livello dei consumi, ridurre gli sprechi e le inefficienze. Ma questo non può essere fatto senza mettere in discussione il fondamento della “società della crescita”, cioè la crescita stessa.
Allo stesso modo ridistribuire in modo meno diseguale le risorse, garantire a tutti accesso alla soddisfazione dei propri bisogni, tramite il mercato o fuori da esso, non è possibile senza intaccare il processo di accumulazione di capitale. La crescita ha bisogno di convogliare le risorse verso le grandi concentrazioni di capitale che le reinvestono più efficacemente, e di manodopera al prezzo più basso possibile. La crescita si alimenta con la diseguaglianza.
Per questo la critica al Pil, se vuole davvero essere funzionale all'affermazione di un nuovo concetto di sviluppo, basato sulla qualità della vita, non può rinunciare ad affrontare il nodo di un’uscita dalla crescita. Serve una riduzione della sfera dell'economico in favore di quella del sociale e di quella ecologica.
Si tratta chiaramente di un compito estremamente arduo, che richiede anche una buona dose di immaginazione e la volontà di guardare oltre il breve periodo, per avventurarsi in una nuova comprensione del reale.
Altrimenti, le critiche al Pil rischiano di fermarsi all'ambito teorico, senza incidere mai sulla realtà.
D'altro canto, se non supportata da analisi puntuali e basate su dati oggettivi, la visione di ampio respiro rischia a sua volta di diventare un'utopia poco concreta, per cui ben venga il rapporto della Commissione Stiglitz-Sen.
Del resto il discorso sul Pil di Kennedy, indubbiamente apprezzabile e sintomatico di una sensibilità all'avanguardia rispetto all'epoca in cui è stato pronunciato, da solo non ha distolto gli Stati Uniti dal sentiero della crescita illimitata dei consumi. Ci potrebbero riuscire, forse in modo catastrofico, le crisi ambientale, energetica, finanziaria ed economica che il modello di sviluppo basato sulla crescita ha provocato.
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Il Pil viene calcolato su semplici basi numeriche identificabili in maniera univoca a livello internazionale; volendo introdurre variabili che rilevino la condizione economica in maniera più ampia, si rischia di introdurre un’elevata soggettività, a causa della diversa percezione degli eventi che deriva da diversi approcci culturali. In conclusione credo che si corra il rischio di creare indici non confrontabili.
La cosa più sensata da fare, secondo me, è lavorare intensamente per diffondere una cultura economica più rispettosa dell’ambiente e della vita dell’uomo. Se riuscissimo a mantenere il nostro pianeta in buona salute e al contempo migliorassimo le nostre condizioni di vita, a chi importerebbe del grafico del Pil?