Nel pezzo si leggono stralci di colloqui con i fruitori del servizio: una neo-mamma che ha smesso di prendere cocaina parla della sua preoccupazione per la salute del figlio e racconta di come un’amica col suo stesso problema non sia riuscita a smettere neanche durante la gravidanza. Un professionista si vanta della sua posizione sociale e lavorativa prestigiosa e al tempo stesso si dispera perché deve «finire dai marocchini in stazione Centrale a cercare l’eroina». Un ragazzo di 17 ha dovuto rinunciare all’attività sportiva per nascondere il suo “vizietto” ai genitori.
Storie come queste sono certamente numerosissime, non solo nell’ambiente della "Milano bene" ma in tutta Italia. E certamente fanno riflettere. Non tanto per la drammaticità al limite della retorica di cui è inevitabilmente condito l’articolo – come se l’ingegnere o il personaggio televisivo che “pippano” fosse una notizia sensazionale –, quanto perché persone ricche e altolocate, che dovrebbero essere felici secondo il paradigma della nostra società consumistica ed edonistica, sembra che in realtà non lo siano affatto.
Ritengo interessante soffermarmi un attimo su questo fatto, ovvero sull’assunzione di droghe (hashish, cocaina, eroina) da parte dei benestanti, non perché i tossicodipendenti con una storia sociale e di vita problematica siano da trascurare, ci mancherebbe, ma perché quello del consumo di droga da parte di chi dovrebbe stare bene, in pace con sé stesso e col mondo, è un’apparente contraddizione che spiega in realtà molte cose.
Il discorso è semplice e lineare: nella società dell’apparenza, della fama e del possesso, la ricchezza materiale è tutto. La verità che ci viene contrabbandata dice chiaramente che chi è ricco, altolocato e affermato dal punto di vista professionale è felice, deve esserlo per forza poiché ha tutto ciò che si può comprare, che è poi ciò che conta. Così sono il manager, il parlamentare, il bell’attore o il calciatore famoso.
Tutta gente, questa, che certamente problemi non ne ha. E allora che ci fanno alle 8 di mattina, davanti a un presidio sanitario, a ritirare il metadone, dividendo la fila con tossici che fanno dentro e fuori dalla vicina casa circondariale? E perché li si vede aggirarsi furtivi per i parcheggi e le strade della periferia metropolitana, avvicinando loschi figuri, pusher e spacciatori, nel pieno della notte? Questi sono senza dubbio comportamenti più consoni a chi ha problemi seri, a chi è rifiutato dalla società, è solo, è disoccupato, squattrinato e magari anche perseguitato dalla legge.
Ecco, siamo giunti al momento in cui solitamente si fermano le riflessioni dei dotti sociologi e degli affermati giornalisti che affrontano questo tema. Quando arrivano qua lasciano dei puntini di sospensione, come se volessero dire qualcosa, trarre una conclusione che è in realtà quasi scontata, ma per qualche strano motivo non possano farlo. Quasi come quando – lo dico ad appannaggio degli appassionati di calcio – il telecronista commenta un fallaccio del difensore che sta marcando troppo stretto l’attaccante dicendo «Questo è il regolamento, queste sono le immagini, giudicate voi…». Cosa c’è da giudicare, s’è visto benissimo che l’ha steso!
La verità è semplice e cruda: la società del benessere non è realmente tale, al possesso dei beni materiali non corrisponde la felicità spirituale, il PIL non coincide col BIL. Questa verità oramai sta venendo a galla e sono molti i fattori che in qualche modo contribuiscono a far sì che questo processo avvenga e lo denunciano. In questi tempi di crisi, di economia in flessione e di ristrettezza, molte persone si sono sentite stranamente felici, quasi liberate da un peso, a volte addirittura realizzate.
Com’è possibile questo, come può la gente migliorare il proprio tenore di vita proprio quando vengono meno le risorse su cui esso si basa? La risposta è semplice: perché il tenore di vita, la sua qualità, non è direttamente proporzionale agli zeri del saldo di un conto in banca o alla cilindrata del motore di un’auto sportiva, ma è riferita a ben altri fattori: la serenità interiore, la sincerità dei legami che stringiamo con il prossimo e con la comunità, la capacità di apprezzare ciò che è veramente importante, il sentire comune che ci colloca in un posto e in un tempo – variabili, queste, oggi quasi cancellate dalla società globale –, la soddisfazione di saper fare qualcosa che non sia digitare numeri su una testiera o montare sempre lo stesso pezzo eseguendo sempre lo stesso movimento, ogni settimana, ogni mese, ogni anno, per tutta la vita.
Non è banale dire – e infatti non lo fa nessuno – che il possesso e la mercificazione di tutto, dai beni primari all’amicizia, dalla cultura alla salute, sono fonte di profonda infelicità e insoddisfazione e sono la causa primaria della morte di una comunità e dei suoi membri. Noi forse non siamo ancora morti, ma come società, come paese, come popolo, siamo già di certo con un piede nella fossa. Vi sembro catastrofista? Provate a farvi un giro al SERT di Milano di prima mattina e poi sappiatemi dire…
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Sperando che abbiate anche voglia di commentarne qualche articolo.