Il mio secchio non fa Pil e quello che pesco è solo lo stretto necessario che mi porta lontana dal banco del pesce al supermercato.
Altri percorsi, altre catene.
Quando vedete branzini, orate cicciute, tranci succulenti di tonno, cascate di gamberetti, trionfanti pescespada, sempre, invariabilmente con un limone infilzato in cima alla spada, comodamente adagiati su un tappeto di ghiaccio chiedetevi cosa c’è dietro quell’occhio vitreo e quella bocca spalancata.
Rupert Murray se lo è chiesto. The end of the line è la risposta che ha provato a darsi ed a dare a tutti quelli che si pongono la questione: ma quel pesce da dove viene?
Un documentario crudo (ma che non sa di sushi) sugli effetti della pesca intensiva sull’ecosistema dei mari e degli oceani.
Le immagini del trailer, perché in Italia, per ora, possiamo vedere solo quelle, sono un pugno dritto allo stomaco.
Cascate di sgombri che precipitano dentro profondi silos, trasferiti lungo cinghie di trasmissione e scaraventati dentro grandi sacchi di plastica.
Ecatombe di tonni, catturati in quantità tali da registrarne il rischio di estinzione per rispondere alla pressante domanda di sushi dell’Occidente.
l’ecosistema dei mari.
La pesca intensiva, o industriale, che dire si voglia, non ha rispetto per i tempi ciclici, perché per l’economia, la crescita e quindi la devastazione e la depredazione il tempo è sempre troppo poco.
Non vale neanche a molto rincorrere il mito, piuttosto redditizio, degli allevamenti dove i pesci sono stipati in gabbie e sovralimentati anche aggiungendo antibiotici ai mangimi perche crescano in fretta, senza ammalarsi e soprattutto tutti uguali.
Branzini standard di 200 grammi identici gli uni agli altri, come i panini del McDonald’s .
L’allevamento, da molti considerato la soluzione “sostenibile” alla penuria di pesce in mare, si rivela invece essere una pratica dannosa per quelle regioni in cui i pesci vengono “allevati”.
Il pesce da allevamento costituisce il 30% del volume ittico globale consumato, ma è anche la causa della distruzione di molti ecosistemi e dell’impoverimento delle piccole comunità di pescatori.
Non basta.
È tutto? No.
In un ambiente stretto, come quello delle gabbie, la concentrazione di capi è molto alta, come alto è il rischio di propagare malattie tra gli animali. Gli antibiotici che si aggiungono ai mangimi, poi, fanno il resto poiché la loro assunzione massiccia produce batteri resistenti agli stessi antibiotici e pericolosi per gli uomini che si cibano di quei pesci, per i pesci stessi che si ammalano e per l’ecosistema nel quale si installano le gabbie.
Ecco quindi che ritorno alla mia canna. Il pesce me lo pesco da sola, se prendo un animale sottomisura, secondo quella che dovrebbe essere una buona regola per tutti i pescatori, lo ributto in acqua, che cresca e raggiunga le dovute dimensioni. Il mio impatto sull’ambiente marino è zero perché non ammorbo e non intorbidisco le acque con oli di scarico, nafta e rifiuti e soprattutto non mi rendo complice, comprando il pesce sulla grande distribuzione, né di una pratica inumana come l’allevamento intensivo né di un processo drammatico che porterà entro il 2048 alla scomparsa della maggior parte degli esemplari che popolano mari ed oceani.
3 Settembre 2009 - Scrivi un commento