Non voglio usare giri di parole per introdurre l’assunto principale, quello che da origine alla mia riflessione, anche perché sono convinto che proprio nella scarsa chiarezza d’intenti risieda oggi l’ambiguità di certe frange e correnti di pensiero.
Ecco dunque la mia considerazione: quello globale e quello locale sono due piani distinti, separati, inconciliabili e nella quasi totalità dei casi in contrasto fra loro. Non è possibile delineare un modello che ammetta – né nella sua parte speculativa né in quella operativa – entrambe le dimensioni. In poche parole, ritengo irrealizzabile e irrealistico il famoso slogan “pensare globalmente e agire localmente”. Semplicemente questo non è possibile.
Anzitutto è bene chiarire a grandi linee cosa si intende per globale, anche se dare una definizione univoca e universalmente valida è difficile e forse proprio questo è e sarà uno dei punti di maggiore divergenza, rispetto alle opinioni altrui, di tutta la mia riflessione.
Il concetto di pensiero globale, di globalizzazione, è entrato nel lessico politico da una decina di anni, allo scatenarsi a Seattle dei primi accesi contrasti fra i rappresentanti istituzionali di un modello che in realtà esisteva già da tempo e un movimento eterogeneo, che per la prima volta si dava un’identità e un volto e che questo modello lo contrastava tanto fortemente quanto disordinatamente, almeno nelle sue fasi iniziali. Come detto tuttavia, la globalizzazione è un concetto ben precedente, introdotto per la prima volta dal sociologo Marshall McLuhan, che già nel 1968 parlava di “villaggio globale”, intendendo con esso la contrazione – lui si riferiva all’ambito delle grandi comunicazioni – di tempo e spazio, equiparando le distanze e le tempistiche locali, quelle di un villaggio appunto, con quelle planetarie.
Mi spiego meglio: le specificità che rendono così stupendamente variegato il nostro pianeta e le culture che lo abitano sono indissolubilmente legate con queste due dimensioni; quella territoriale, che forgia letteralmente la realtà umana e naturale che la abita così come lo stampo di pietra da la forma alla ceramica che vi viene colata dentro; quella temporale, che con l’incedere degli anni detta i ritmi evolutivi, senza contrazioni artificialmente imposte buone solo a scombinare l’armonia naturale. Nel momento in cui vengono meno spazio e tempo, tutto ciò che è ad essi collegato salta, impazzisce, si scombina o si distrugge.
In questo senso, ritengo utile rifarmi alla distinzione rigida e al tempo stesso estremamente significativa che i seguaci di Arne Naess hanno operato fra l’ecologia profonda, che parte prima di tutto da un mutamento di visione, abbracciando il paradigma olistico e ridefinendo il rapporto stesso fra l’uomo e la natura, e quella che essi chiamano “ecologia di superficie”, che pur perseguendo nobili intenti non è capace di rinunciare allo schema che vede l’uomo posto un gradino sopra alla natura.
Quello che ritengo utile mutuare da questa distinzione è il rigore con cui gli ecologisti profondi giudicano l’approccio culturale, rivendicando un’alterità rispetto all’ecologia di superficie la quale, pur operandosi spesso e volentieri in favore dell’ambiente, non è però capace di modificare la propria visione, precludendosi in questo modo la possibilità di recuperare con la natura una sincera armonia capace di ristabilire un rapporto che eliminerebbe alla radice le storture del sistema moderno.
Qui mi fermo un attimo per fare due piccole ma doverose precisazioni. La prima è che con queste riflessioni non voglio negare che ci possa essere e ci sia effettivamente una sorta di riverbero mondiale, planetario delle istanze sopra descritte, magari arrivando anche a esperienze di coordinamento e azione concertata in alcuni casi, partendo sempre però dal presupposto che si tratta di iniziative locali che si confrontano, si coordinano e si “mettono in rete”. In secondo luogo, lungi da me la volontà di rifugiarmi in particolarismi chiusi e autoreferenziali, che sarebbero sì differenti rispetto al modello globale ma, in ultima analisi, non farebbero altro che il suo gioco.
Cosa propongo, quindi? Nessuna novità, nessuna ricetta rivoluzionaria e vincente. Cose semplici che ci sono sempre state e che ultimamente abbiamo solo perso di vista: la riscoperta della propria tradizione spirituale e culturale, che è un’ancora che ci tiene sempre saldi alle nostre rive; la rivalutazione e la valorizzazione delle differenze, che in questo mondo ordinato da un pensiero omologante e livellatore devono costituire un punto sul quale non si può cedere; il rifiuto del modello di consumo globale, a cui preferire l’alternativa locale: esistono già gli strumenti per praticarla, dai prodotti a chilometri zero alle monete complementari, dalla permacultura alle esperienze politico-amministrative virtuose.
Non ho la pretesa che le mie considerazioni siano giuste e condivise da tutti, ma ritengo che l’unica arma veramente efficace da contrapporre alla globalizzazione sia la riscoperta e la riproposizione della dimensione locale. E il radicalismo che mi anima nel sostenere questa mia posizione è dovuto al fatto che le possibilità di successo di questo approccio sono direttamente proporzionali alla fedeltà nei confronti dei suoi connotati: tanto più si cederà alla tentazione di diluire questa battaglia su un piano globale e di universalizzarla, quanto più facile sarà cadere nuovamente nelle storture e nelle contraddizioni che tale piano inevitabilmente e intrinsecamente comporta, a prescindere dalle intenzioni buone o cattive di chi si cala nel suo contesto.
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