Praticamente non c’è campo che non ne sia oggetto: la “realtà” mediatica si è totalmente sostituita alla realtà reale. La Confindustria ha creato già da molto tempo una sua “Sezione Comunicazione”, molto interessata, fra l’altro, all’interazione con le università. Più esattamente, all’asservimento di esse ai propri scopi.
In un certo senso non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ogni società umana si è costruita il proprio modello culturale, ovvero la propria visione del mondo e della propria posizione in esso. E lo scopo non è mai stato quello di dare del mondo una descrizione veritiera bensì soltanto di giustificare le azioni compiute sul mondo stesso da quella società e il modo di essere che quelle azioni presuppongono.
I modelli di cultura tuttavia sono sempre stati creazioni spontanee delle comunità, determinati dal basso mediante il linguaggio del mito. Tale era ad esempio il rito dell’orso, tipico di certe popolazioni di cacciatori paleolitici. "Quando si uccideva l’orso, gli si offrivano le proprie scuse; prima di mangiarlo, veniva celebrato un pasto sacro in cui veniva riservato all’orso il posto di 'ospite sacro' e gli venivano offerti i piatti più prelibati. Infine l’orso veniva sepolto con tutti i cerimoniali"1. Tutto ciò aveva lo scopo di riconciliare la comunità umana col più ampio contesto della comunità ecosistemica di cui l’uomo, a quel tempo ignaro dell’allucinazione antropocentrica, sapeva di essere parte.
Questa consapevolezza conduceva a percepire come atto eticamente condannabile l’uccisione di un membro di quella comunità, atto che dunque andava in qualche modo riparato ed espiato. E non potendo esserlo nel mondo reale l’azione riparatoria veniva traslata nel mondo “virtuale” del mito e del rituale che ne derivava. Un mondo che, agli occhi dei membri della comunità umana, aveva più spessore, più realtà della realtà reale.
Il 9 marzo a Seul, in Corea del Sud, una bambina di tre mesi muore. Muore di fame. Per l’esattezza viene lasciata morire di fame dai suoi genitori, troppo occupati a trascorrere le loro giornate in un punto internet attaccati all’ultimo videogioco del momento: la figlia virtuale.
Ma agli esperti di “scienze” della comunicazione non basta ancora. Da anni si sperimentano le tecnologie che consentiranno di realizzare la “realtà virtuale”, qualcosa che farà svanire i limiti dell’attuale immagine video, bidimensionale e confinata in un rettangolo al di là del quale la realtà reale si può far dimenticare ma non cancellare. Qualcosa che renderà del tutto indistinguibile la fandonia dal mondo reale.
Intanto una ricerca inglese ci fa scoprire ciò che da tempo è sotto gli occhi di tutti: l’universo dei bambini è racchiuso nel rettangolo luminoso di uno schermo video, che nulla di ciò che ne è al di fuori li interessa, che una marmotta è loro più estranea di uno di quei macabri mostriciattoli pseudoextraterrestri che pullulano nei videogiochi.
Tuttavia, poiché non siamo ancora alla realtà virtuale, poiché basta deviare lo sguardo per un istante dal rettangolo ipnotico dello schermo video e la realtà reale insinua la sua importuna presenza, bene mostriamone la miseria, l’incompletezza, inventiamo la “realtà arricchita”.
Cos’è? È ciò che appare sull’onnipresente schermo video – quello che devi portarti ovunque o sei perduto – quando lo rivolgiamo verso uno spicchio di realtà reale. Ma l’idea, ancora una volta, non è nuova: il primo esempio di “realtà arricchita” fu la radiolina a transistor, nell’uso che ne faceva il tifoso portandosela allo stadio per farsi raccontare dal telecronista ciò che accadeva sotto i suoi occhi.
Ad esempio, sei in un parco naturale, punti il tuo telefono cellulare e sul display ti appare tutto ciò che è importante sapere su di esso: ad esempio la ricettività degli alberghi, le pizzerie, gli orari delle visite guidate, le rivendite di souvenir, le più vicine discoteche, i fast food, le birrerie, i parcheggi, le aree attrezzate, i pub; tutto insomma, tutto ciò che può rendere interessante un “coso” chiamato parco. E, per tornare infine alla salubre civiltà, la via da seguire per raggiungere il più vicino casello autostradale. Ecco, questo è il parco “arricchito”. E l’odore dell’aria aperta? E il fruscio del vento? E il concerto di suoni del bosco? E i giochi di luce del sole fra gli alberi? No, quelli no. Sul display non ci sono. La realtà “arricchita” non li contempla. Non esistono.
1 J. Mahlinger, 1952, citato in E. Fromm, Anatomia della distruttività umana, Milano, 1975.
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