Oggi, nell’Occidente industrializzato, le disparità tra uomo e donna non sono poi così tante ed io, comunque, ho la fortuna di godere di una serie di diritti che purtroppo le mie ave non avevano e le donne di altri Paesi nel mondo non hanno tuttora.
Soprattutto abitando in una grande città, anche se fossi un uomo vivrei il malessere di sentirmi la rotella di un grande ingranaggio: la società iper-produttiva e iper-consumistica che vuole consumatori al posto di persone e che cerca di stritolare al suo passaggio tutto ciò che incontra, compresi il senso critico ed il buonsenso dei cittadini.
Poi mi fermo a considerare le vite di mia nonna o di mia madre paragonate alla mia: se loro invidiano la mia (pseudo) libertà, io invidio loro per i rapporti sociali e familiari che avevano.
Tante volte penso che se fossi nata uomo certi conflitti interni che mi rendono frustrata e ansiosa non li avrei.
Cedere a quella parte di me che vuole tranquillità, benessere ed essere mite senza dominare, o a quella che necessita di esprimere la propria personalità ed avere un posto nel mondo (e che per farlo ha bisogno di imporsi con forza)?
Tentare di fare carriera nel lavoro con lo slancio aggressivo che ciò comporta o relegare la vita professionale in secondo piano per dare spazio a famiglia e casa?
Non mi va di fare una scelta simile, ma pare che non ci siano vie di mezzo: non è possibile lavorare poco ed essere realizzati e ben pagati, né lavorare tanto ed avere comunque tempo libero per il resto. Inoltre, nei più svariati campi dell’esistenza spesso o ti imponi o vieni sottomesso.
In un mondo che vede il successo solo come raggiungimento di un’alta posizione sociale e lavorativa attraverso la competizione e l’egoismo (caratteristiche maschili!è testosterone!), come coniugare la spinta all’indipendenza e all’autorealizzazione propri di ogni persona intelligente e libera, con quella tendenza alla dolcezza, alla maternità, ai rapporti basati su dialogo e collaborazione che mi porto dentro come eredità del secolare ruolo femminile nella società?
Cosa fa, infatti, una donna “cittadina” oggi? Esacerba il suo lato maschile.
Gareggia, compete, entra in guerra con la schiera di concorrenti che aspettano un lavoro e, una volta ottenuto, si fa in quattro per tenerselo, magari accettando di fare straordinari massacranti, sopportando umiliazioni o schiacciando cinicamente gli avversari nella scalata sociale.
La donna cittadina non ha tempo per sé, vive in mezzo al cemento ed è costretta ad acquistare qualsiasi bene e a demandare ad altri qualsiasi servizio sociale (compresa la cura dei bimbi di pochi mesi!) perché non sa più come e quando farlo (ma più lavora o ha successo e più ha soldi per delegare, che bello!).
Ogni lei, nella nevrosi della disumanizzazione degli abitanti di una grande città, ha paura del prossimo e non si fida di nessuno… Cosa c'è di femminile in tutto questo?
Ah no, scusate, dimenticavo il venerdì ed il sabato sera.
Le ragazze, il fine settimana, possono uscire con i propri amici (se sono riuscite in questo caos a mantenerne qualcuno) per “liberarsi dallo stress” fumando, bevendo, spendendo soldi in locali alla moda e vestendosi in modo provocante per dimostrare così la propria femminilità!
E consumare, consumare... anche il sesso.
Un’adulta, invece, nel tempo libero può accompagnare i figli ai vari corsi di piscina, danza, inglese, karate, calcio, pallavolo oppure fare shopping, andare dalla parrucchiera, dall’estetista… tutta qui la femminilità.
Ancora una volta consumare, consumare, consumare.
Per un’anziana, poi, non c'è proprio verso. In pensione, prende una miseria; ha tempo, ma non serve più a questa società e se non ha dei parenti particolarmente caritatevoli, ciò che l'aspetta è la solitudine e spesso la povertà.
Tuttavia, il risultato di una società dove la donna ha guadagnato tanti diritti ma ha perso la possibilità (e a volte anche la volontà) di esprimere il proprio essere femminile, è un mondo solo maschile, duro, incompleto e che, anche per questo motivo, non può produrre individui sani. Basta accendere la televisione per rendersi conto della deriva culturale e sociale dell’ "Occidente": dalla degenerazione degli adolescenti, alla donna-oggetto proposta, fino alla gestione pazza e criminale della Terra e dei suoi abitanti da parte dell’elite maschile al potere.
Quando ho letto il libro di Maurizio Pallante, La decrescita felice, ho potuto con commozione trovare i miei stessi dubbi e pensieri nel capitolo in cui parla di donne e famiglie urbane.
Cosa c'entra la decrescita? C’entra parecchio! “Decrescere” vuol dire rallentare, consumare di meno, vivere di più, dedicarsi a ciò che si ama, ritrovare la convivialità nei rapporti con gli altri.
Non possiamo più permetterci di continuare nella corsa sfrenata ad una crescita che non abbiamo idea di dove voglia arrivare. Le risorse non sono illimitate: dobbiamo capirlo e farne un uso più sobrio. Il bello, però, è che così facendo recupereremmo di nuovo degli spazi per noi! Spazi per fare e per pensare.
Tutto ciò non vuol dire riproporre schemi del passato, ma recuperare ciò che di buono abbiamo voluto abbandonare in nome di una innovazione totale.
Tra le vittime del progresso vi è, ad esempio, la famiglia allargata.
Questa è morta con le industrie ed il capitalismo che, avendo bisogno di sempre più braccia a buon mercato per produrre, hanno sfruttato la voglia delle donne di uscire dal controllo di un padre o marito “padrone” per dar loro un posto nel grande mondo del lavoro.
Eccole così risucchiate nel girone infernale dei lunghi orari lavorativi, catapultate in città brulicanti di sconosciuti e strappate via al lavoro nei campi e alla loro vita domestica fatta in una grande casa condivisa con la famiglia allargata.
Gli anziani si occupavano di varie cose tra cui la cura dei bambini mentre i genitori adulti erano occupati in altre attività. In passato quelli che oggi vengono chiamati “vecchi” erano considerati, data la lunga esperienza di vita, saggi consiglieri e la preziosa memoria della famiglia. Adesso li rinchiudiamo in ospizi o li abbandoniamo alla povertà solitaria.
I bambini, dopo la scuola, vivevano nel loro nucleo familiare e non venivano parcheggiati per la gran parte della giornata in asili o affidati a baby-sitter.
Perché adesso dobbiamo lavorare, lavorare e ancora lavorare per pagare l'ospizio, l'infermiere, l'asilo, la baby-sitter? Che senso ha?
Prima ci si prendeva cura uno dell'altro, a turno, in un ciclo del tutto naturale.
C'e' chi giustamente controbatte che una famiglia allargata comportava una gestione patriarcale dell'esistenza, con tutte le restrizioni che ne derivano soprattutto alle donne. Queste, oggi, possono avere una cultura e un loro stipendio per non dover più dipendere dagli uomini della famiglia: ciò è senza dubbio un traguardo importantissimo.
Sì, è vero, Non c'è più il padre-padrone, ma pensateci bene. C'è la dipendenza totale da un padrone diverso: il mercato. È questo a decidere quanto vali, quanto puoi guadagnare, comprare e lavorare per pagare cose che prima facevi da sola o tramite la tua famiglia allargata o ancora attraverso la cerchia femminile di solidarietà e mutuo aiuto che esisteva.
Ma davvero questa è libertà? Non avere nessuno che ti aiuta o ti consiglia nelle faccende domestiche e nell'allevamento dei figli? Essere costretta ad abbandonare i bambini in un asilo nido a pagamento con sconosciuti quando hanno appena sei mesi? Rubare solo minuscoli ritagli di tempo per dedicarli a ciò che realmente ami? Dover fare un lavoro spiacevole e competitivo per campare? Davvero la gestione allargata di una casa, di un giardino, della famiglia, era così male?
La chiusura degli individui in singole casette isolate da tutto il resto non può essere considerato un miglioramento rispetto al passato.
Si può provare a pensare a modi alternativi e meno soffocanti di vivere con gli altri per aiutarsi; se tutti lavoriamo un po' di meno possiamo avere tempo per autoprodurre molte cose che ci servono e farle con gioia insieme e per i nostri simili!
Non avremmo più bisogno di vendere tutto il nostro tempo ad aziende e multinazionali e quindi basterebbero meno soldi.
E c’è un’altra cosa terribile che è stata fatta alle donne: convincerle che per avere posto nella società debbano dimostrare di essere brave quanto gli uomini e così diventare simili a loro, senza dare nessun riconoscimento alle loro specificità intrinseche. L’alternativa è quella di rinunciare all’ autorealizzazione o all’ indipendenza.
La vera libertà le donne l'avranno solo quando riusciranno ad esprimere la propria femminilità senza per questo dover assomigliare agli uomini; quando avranno modo di dedicarsi ai loro figli, alle persone care, ai loro interessi e attività senza per questo dipendere ed essere ricattate da nessuno; quando potranno esprimere se stesse nella loro vera natura, sostenute da una comunità solidale di donne e uomini che comprende l'importanza del compito sublime che madre natura ha dato loro e delle bellissime qualità connesse con l’essere donna.
Sono convinta che sia l’unione di individui diversi a fare la forza, e non l’omologazione di essi.
Allora perché non iniziamo noi, singoli individui sperduti, a costruirci il nostro tessuto sociale, la nostra famiglia allargata (riveduta e corretta!)? Con parenti, amici, vicini di casa? Spezziamo questa solitudine e proviamo a fare qualcosa per gli altri e ad accettare ciò che ci daranno in dono.
Costituiamo dei Gas, mettiamo a disposizione il nostro tempo libero per prenderci cura di nonni, bambini, orti, cibo, fonti energetiche e qualsiasi altra cosa sappiamo ancora fare o impareremo a fare!
Avremmo tutti meno bisogno di acquistare molte cose e potremmo lavorare sempre di meno ed ecco così che ritroveremmo il tempo per vivere che ci e' stato sottratto… e forse anche una nuova dignità!
La decrescita felice
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tuttavia personalmente non condivido il tuo modo di articolare il discorso. impostare la questione del femminile all'interno di sterili binomi (carriera/famiglia, dolcezza/aggressività) e ridurre la femmnilità a qualcosa di dato, di biologico, che ha a che fare con la cura, la tranquillità e la maternità (e l'egoismo maschile al testosterone!) mi sembra eccessivamente ingenuo. lo trovo preoccupante tanto più se detto da una donna, e una donna del 2009. se veramente sei per la valorizzazione delle diversità, devi anche capire che non tutte le diversità sono preesistenti alle relazioni, scritte da qualche parte nel codice genetico, determinate "per natura". per cambiare il sistema culturale dovremmo spostare l'attenzione proprio sulle relazioni e sul loro potenziale creativo, piuttosto che continuare a ragionare per identità. la "femmina" che cura e il "maschio" che lotta sono manufatti costruiti storicamente. e non credo che decrescere significhi riadottarli come modelli. meglio sarebbe aprire gli occhi ed essere abbastnza responsabili da vedere i cambiamenti in atto. fuori dagli stereotipi che descrivi c'è una varietà di forme inascoltate. e non credo che per criticare i nuovi stereotipi sia sufficiente, né necessario, tornare ai vecchi.