Ci siamo mai chiesti quale fosse il modello standard, il campione di essere umano a cui si riferiscono quelle indicazioni? Nelle ricette culinarie viene detto “porzioni per 4 persone”, ma sarà il cuoco ad adeguarle all’appetito e ai gusti dei propri commensali. Nel caso dei farmaci a fare da chef è il medico, ma questi dispone di fatto di dati più affidabili di quelli riportati sul medicinale stesso?
Il buon senso ci fa supporre che i test clinici siano condotti su esseri umani di età, sesso, razza, estrazione sociale variegati ed esaustivi. Ebbene, non è affatto così, per svariate ragioni.
Concentriamoci in questo caso sulla tematica di genere. E’ generalmente ignorato che la medicina nell’elaborazione delle terapie come nella messa a punto dei farmaci è fortemente polarizzata in direzione maschile. Il maschio è considerato il modello, mentre la femmina viene assimilata ad esso come una variante (per lo più in termini di dimensioni corporee). Al di fuori delle malattie o procedure sanitarie che riguardano esclusivamente il genere femminile, ossia tutte quelle che possono essere raccolte sotto l’ombrello della ginecologia, di fatto non esiste una medicina specifica sviluppata sulle donne e per le donne.
In primo luogo le donne hanno una fisiologia differente, pertanto il loro corpo reagisce con tempi e modalità molto diversi, rispetto a quello degli uomini, alla somministrazione di farmaci e alle pratiche ospedaliere. Già su un mero piano biologico – dunque - la ricerca, la prevenzione e la cura sono macchiate da un vizio di metodo. Ma la questione non è circoscritta alle differenze biologiche legate al sesso, bensì le travalica, investendo questioni di genere, ossia tutto ciò che rappresenta la specificità della donna - differente da quella dell’uomo - sul piano psicologico, sociale, culturale.
Perché le donne sono ampiamente sottorappresentate nei gruppi campione su cui vengono eseguiti i test clinici?
Prima di tutto è stato a lungo considerato difficile reclutare donne e poter fare poi affidamento sulla loro costante partecipazione alle analisi, per problematiche sociali e culturali (che ancora una volta riflettono un atteggiamento discriminatorio nei confronti del genere femminile).
Ma soprattutto esse sono giudicate modelli non validi in quanto soggette a continue variazioni ormonali (che possono quindi influire sull’azione del medicinale). A questo si aggiunge la preoccupazione di recare danni al feto, se la donna è incinta, o compromettere la sua capacità riproduttiva, anche se non in atto durante la sperimentazione.
Queste ultime considerazioni, che apparentemente sembrano voler tutelare la donna da rischi inopportuni, in realtà non hanno fatto altro che creare l’assurdo che al momento si ignori del tutto ogni legame tra i reali effetti di medicine e terapie e la specificità legata all’essere di genere femminile. Per non sottoporre delle pazienti a rischi presunti, si opta per l’offerta di una sanità precaria a tutte le donne.
Come già detto, oltre a questioni più propriamente fisiologiche legate al sesso, esistono anche tutta una serie di fattori “esterni” che determinano un diverso approccio della donna alla medicalizzazione e alle cure. Questi fattori abbracciano componenti sociali, culturali e psicologiche.
In altri casi si manifesta una minor medicalizzazione o al contrario un eccesso di ricorso ai farmaci a causa di atteggiamenti pregiudiziali da parte del personale medico. Uno studio condotto negli Stati Uniti su tre gruppi di cardiologi ha fornito in questo senso delle risposte interessanti. La paziente era un’attrice che ha simulato la stessa malattia ma presentandosi ai tre gruppi con atteggiamento (ossia personalità) differente: la prognosi e le cure prescritte sono state ben diverse e hanno dimostrato che i medici si erano lasciati influenzare dal modo di comportarsi dell’attrice.
Sul piano dei disturbi psichici, poi, si è potuto constatare come la risposta del medico alla richiesta del paziente possa essere differente a seconda del suo genere. Si sa che per secoli, con atteggiamento misogino e discriminatorio, la donna è stata senza fondamento scientifico considerata inferiore psicologicamente e per natura mentalmente più instabile. Questo ha determinato tutta una serie di retaggi culturali che in parte agiscono anche lì dove eventualmente tale opinione risulti razionalmente superata.
Inoltre errate considerazioni di natura psicologica portano tuttora ad una minore o tardiva diagnosi di malattie mentali gravi quali la schizofrenia, ma anche di depressioni e disturbi alimentari. Gli uomini, infatti, manifestano sintomi più eclatanti, quale atteggiamento iper-aggressivo o totale isolamento dal mondo. Questo fa sì che entrino in contatto con le strutture mediche in tempi rapidi, con conseguenti maggiori possibilità di ripresa. Le donne, invece, - spesso anche per via delle differenti cause da cui le patologie scaturiscono - tendono a diventare passive, inerti, chiuse in se stesse e ansiose. Questi sintomi sono spesso fraintesi a causa di una mentalità retrograda che interpreta tali atteggiamenti come un allineamento ai ruoli classici, che vedono la donna come presenza passiva e suscettibile sul piano emotivo. Per questi motivi accade che la schizofrenia femminile non sia diagnosticata, quindi curata in maniera erronea o in ritardo.
Per uscire da questa arretratezza e poter garantire alle donne un sistema sanitario di qualità occorre, dunque, sviluppare una medicina di genere, o meglio inserire una prospettiva di genere nella medicina classica. Non si tratta infatti di soffermarsi su patologie che colpiscono solo le donne, bensì di completare e arricchire le ricerche, le analisi e i test farmacologici, conducendo studi specifici su individui di genere femminile.
Bisogna andare ad indagare lo sviluppo delle malattie come gli effetti delle cure, tenendo in considerazione proprio tutte quelle variazioni ormonali, biologiche e psicologiche a cui la donna va incontro nell’arco della propria vita e in relazione al tessuto sociale e culturale in cui essa è inserita.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/WHO) ha in realtà individuato l’esigenza di sviluppare una prospettiva di genere nella medicina già da oltre dieci anni e ha per questo stabilito una sezione chiamata Women’s Health and Gender Mainstreaming, che si pone per l’appunto l’obiettivo di approfondire tale questione e di prevenire o abbattere qualunque discriminazione in campo sanitario.
In Italia negli ultimi dieci anni si sono incominciate a muovere le acque, con la formazione di gruppi di lavoro e con una prima sensibilizzazione operata da parte del ministero della salute (in merito a ciò particolarmente positivo è stato l’operato di Livia Turco nella scorsa legislatura).
Nel 2003 un gruppo di specialisti nel nostro Paese ha ricevuto il compito di formulare le linee guida per le sperimentazioni cliniche e farmacologiche che tengano contro dell’influenza del genere. Ma la messa in pratica procede ancora con lentezza.
Negli ultimi mesi si sono tenuti il Primo Congresso Nazionale sulla Medicina di Genere a Padova e il Primo Workshop Interistituzionale “La Medicina di Genere” a Ferrara, nell’ambito dei quali personale medico, farmaceutico e ospedaliero si è confrontato su questa importante materia. In aggiunta si sta cercando di inserire la prospettiva di genere nei corsi universitari di Medicina e Chirurgia.
Speriamo di trovare presto in farmacia medicine con foglietti illustrativi diversi per donne e uomini e sperimentare, nelle sedi sanitarie, terapie sviluppate ad hoc per il genere femminile.
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Credo in generale che una medicina di genere che si focalizzi su entrambi i generi (e quindi in qualche modo una medicina "sdoppiata" e parallela) sia una soluzione ottimale. Nell'articolo non si afferma che occorra concentrarsi sulle donne e trascurare gli uomini, bensì solo che, quanto meno, per curare e prevenire le malattie degli uomini si hanno a disposizione dati "migliori" di quelli che si hanno per le donne.
Per il resto, evidentemente anche quando si è in possesso di dati adeguati, non si riesce ad usarli efficacemente.
Ti ringrazio comunque delle osservazioni.