Vero è che i primi studiosi dell’evoluzione, leggendari come Charles Darwin e Claude Levi-Strauss, non avevano mai prestato troppa attenzione all’alimentazione degli uomini preistorici, considerandola probabilmente come un dettaglio marginale della loro storia, ma negli studi più moderni di paleontologia da molto tempo l’argomento è considerato di primaria importanza.
Tuttavia, negli ultimi giorni, i giornali hanno salutato una ricerca americana come la più originale e innovativa. La teoria è stata addirittura ribattezzata come «the cooking hypothesis» (l’ipotesi culinaria)! Artefice ne è lo studioso Richard Wrangham, docente di antropologia biologica del più prestigioso ateneo americano, che ha appena pubblicato il suo libro Catching fire: How cooking made us human (La scoperta del fuoco: Come cucinare ci ha reso umani).
Obiettivo della sua opera è dimostrare che il “segreto” dell’evoluzione dei nostri progenitori starebbe proprio nell’aver imparato a cucinare. «Mangiare carne ha avuto un impatto minore che cucinarla», afferma Wrangham. L’autore sostiene infatti che la scoperta del fuoco e la successiva intuizione che il cibo, avvicinato alle fiamme, diventava migliore ha avuto effetti cruciali sull’evoluzione umana.
Ma dove sta la novità? - ci chiediamo noi. In tutti i manuali di paleontologia - e persino nei libri di Preistoria per bambini! - si pone l’accento sui vantaggi del fuoco nelle società primitive.
Il fuoco offre luce nella notte ed allunga le attività giornaliere; dà calore nelle stagioni fredde; spaventa le belve e diventa un’arma di difesa e di attacco; agevola la lavorazione degli utensili più complessi; sviluppa la comunicazione, la conoscenza reciproca e la socializzazione tra gli individui, che spontaneamente si raggruppano attorno al fuoco.
Quanto al cibo, la sua cottura (in acqua riscaldata o direttamente su fiamma), è assodato, migliora la dieta e la salute. Il fuoco uccide prima di tutto i batteri; in secondo luogo rende i cibi più morbidi e facilmente masticabili, soprattutto per bambini e anziani. Carni e vegetali cotti sono anche molto più digeribili di quelli crudi. E su questo punto si concentra lo studio del docente di Harvard: l’energia risparmiata nella digestione venne trasferita dall’organismo dei primi ominidi al loro cervello, provocandone un aumento di superficie e capacità intellettuale. «Quest’energia in più ha dato ai primi cuochi significativi vantaggi biologici - scrive lo studioso - che li aiutarono a riprodursi meglio di prima, moltiplicando i propri geni».
Wrangham pone poi l’accento su quello che lui chiama “effetto collaterale” della nascita della cucina: la condanna del sesso femminile a un ruolo subalterno rispetto ai maschi. Sostiene infatti che meno forti fisicamente, le donne furono destinate alla cottura dei cibi, attività stanziale che richiedeva tempo. Non potendo più muoversi, le femmine persero autonomia e furono costrette a contare solo sui loro compagni per procurarsi gli alimenti.
A differenza degli altri animali della savana infatti, a partire da Homo Habilis, i piccoli degli ominidi rimangono a lungo sotto la custodia delle madri. Le donne si specializzano quindi nel ruolo di madri e, avendo sempre con sé i cuccioli da accudire, si dedicano a reperire il cibo disponibile nei dintorni (raccolta di erbe, bacche, frutti, molluschi). Gli uomini, liberi dall’ingombro dei figli, vanno a cercare lontano nuove fonti di approvvigionamento, con lunghe marce e appostamenti per seguire le prede.
I ruoli si equilibrano, si compensano, si incastrano alla perfezione. Parlare di ruolo inferiore delle donne è dunque riduttivo per quelle società che stavano approcciando a forme di organizzazione ottimali e sempre più funzionali alla loro (e alla nostra) sopravvivenza.
Come al solito, bisogna riportare al loro posto le notizie e, se se ne possiedono gli strumenti adeguati, fare attenzione quando ci annunciano novità sensazionalistiche che puzzano di scoop. Il giornalista ingenuo, chiamato spesso a scrivere fatti di cui poco si intende, rischia di diffondere false realtà; il giornalista disonesto, pur essendo a conoscenza delle falsità, le vende comunque; il giornalista onesto provvede a smascherarle, nel rispetto di un pubblico per fortuna sempre più smaliziato. A noi piace appartenere a quest’ultima categoria.
30 Maggio 2009 - Scrivi un commento