La situazione è ancora più grave per quanto concerne gli apoidei selvatici (come i bombi e la maggior parte delle specie di api), in quanto i loro alveari non vengono curati e ripristinati come quelli delle “api domestiche”. Negli Stati Uniti e in Canada, ad esempio, si stima che il numero delle famiglie di apoidei che si sono estinte o si estingueranno a breve si aggira tra il 30% ed il 90%.
Dati sconfortanti che confermano una catastrofe annunciata. Negli ultimi anni, infatti, gli apicoltori hanno dovuto fronteggiare i danni prodotti da interi sciami di api morte, raccolte a piene mani, mentre in altri casi centinaia di migliaia di esemplari non hanno fatto più ritorno all’alveare, letteralmente scomparsi, probabilmente a causa della perdita dell’orientamento. Tale comportamento, definito Colony Collapse Disorder (CCD), in certi casi viene trattato separatamente dalle morti di massa benché le cause attribuite ai due fenomeni siano più o meno le stesse. L’aspetto più inquietante del CCD sta nel fatto che gli alveari lasciati vuoti non vengono saccheggiati da altre colonie di api come accade di solito, ma lasciati intoccati, come se fossero contagiosi.
Una preziosa società matriarcale
Le api (Ordine Hymenoptera, Famiglia Apidae) vivono in colonie composte da un’ape regina e da un numero tra 10.000 e 150.000 api operaie, divise fra bottinatrici, soldato, esploratrici... tutte femmine. Solo in alcuni periodi (generalmente a fine inverno), infatti, da uova non fecondate nascono i fuchi, individui di sesso maschile privi di pungiglione. Api e fuchi hanno una vita più o meno della stessa durata (30-40 giorni per le prime, 50 per i secondi), mentre l’ape regina può vivere fino a cinque anni, producendo 1500 uova al giorno.
Le uova sono protette e curate dalle operaie che, tra l’altro, si preoccupano di arieggiarle e mantenerle ad una temperatura costante: se è troppo elevata l’abbassano sbattendo velocemente le ali e provocando correnti d’aria, mentre se è troppo bassa possono accovacciarsi accanto alle uova per mantenerle calde. Dopo la schiusa, la larva viene nutrita con acqua, miele e polline se è destinata ad essere un’ape operaia, solo con pappa reale (un derivato delle ghiandole ipofaringee delle api, composto per ben il 48% da proteine) se sarà una regina. La vita dell’alveare è intensa e interamente indirizzata alla produzione del miele, che deriva principalmente dal nettare che le api succhiano dai fiori. Le bottinatrici, al ritorno nell’alveare, rigurgitano il prezioso carico nella bocca di api operaie che lo elaborano arricchendolo di enzimi per poi passarlo ad altre operaie. Solo alla fine di una lunga catena la sostanza così faticosamente lavorata viene deposta nelle celle dell’alveare. A questo punto il calore fa evaporare l’acqua in eccesso ed il miele è pronto. Sta poi all’apicoltore saperlo estrarre, avendo cura di prelevarne solo il 10% per non mettere a rischio la sopravvivenza delle larve.
Sotto l’aspetto nutrizionale, il miele è un prodotto molto energetico, ricco di zuccheri derivanti dal nettare, quali il glucosio (in grado di trasformarsi in energia dall’utilizzo immediato) e il fruttosio (che, invece, viene immagazzinato come riserva energetica a lungo termine).
L’uomo apprezzava le qualità del miele già nel Neolitico ed esistono prove dell’esistenza di rudimentali arnie costruite circa 8000 anni fa. Lo conoscevano bene gli Egizi che riponevano il miele fra i tesori nelle tombe dei Faraoni e (come facevano anche i Sumeri, i Babilonesi e gli Ittiti) lo usavano quale unguento per ferite, per curare diversi malesseri e come maschera di bellezza. I Greci lo definivano “il cibo degli Dei” mentre i Romani utilizzavano la cera d’api sia come isolante che per costruire le tavolette da scrittura e per l’illuminazione. L’uso più diffuso fra tutti i popoli era comunque quello alimentare e medico.
Perché muoiono le api?
Sebbene il fenomeno della morte e scomparsa delle api sia attribuito ad una rosa di fattori concomitanti, sembra che il principale responsabile sia rappresentato dai pesticidi sistemici ad azione neurotossica. Utilizzati fin dagli anni ‘80, questi pesticidi vengono assorbiti dalla pianta e trasferiti nella linfa da cui, poi, si distribuiscono a foglie, fiori, fusto e radici. Di conseguenza, quando prelevano nettare o propoli, le api vengono gravemente intossicate; basti pensare, peraltro, che per un ettaro di terreno coltivato a girasole sono sufficienti poche decine di grammi di pesticida e che questo resta disponibile in tracce nel terreno anche per la semina successiva. Ad aggravare la situazione, attualmente è in largo uso l’endoterapia, l’iniezione dei pesticidi direttamente nei vasi linfatici, utilizzata per il trattamento di piante ornamentali molto diffuse quali Aceri, Querce, Pioppi, Thuja ed Olmi.
Per quanto riguarda l’azione neurotossica, ne sono responsabili i principali pesticidi di nuova generazione, i cosiddetti neonicotinoidi a base di nicotina, i cui principi attivi sono l’imidacloprid, il clothianidin, il thiamethoxan ed il fipronil. Questi principi attivi hanno effetti devastanti sulle api perché bloccano sia il GABA (acido gamma-ammino-butirrico) che l’acetilcolina, due neurotrasmettitori di importanza fondamentale il cui arresto determina, tra l’altro, la perdita di orientamento descritta dalla CCD. La presenza di tali pesticidi diventa praticamente ubiquitaria in quanto queste sostanze, oltre ad essere diffusamente impiegate nella coltivazione di colza, mais, girasole, barbabietole da zucchero e di molti altri prodotti agricoli, sono anche persistenti nell’ambiente.
Il Dossier sui neonicotinoidi 2007 dell’UNA-API (Unione Nazionale Associazione Apicoltori Italiani) riporta diverse prove che testimoniano la tossicità dei pesticidi sistemici neurotossici nei confronti delle api. La Direttiva europea 91/141 prevede, peraltro, che per i pesticidi venga calcolato un quoziente di rischio per le api (HQ), dipendente dalla dose di sostanza applicata per ettaro e dalla tossicità acuta nei loro confronti. Un punteggio pari a 50 HQ rende necessarie ulteriori analisi perché sussiste il forte rischio che la sostanza abbia effetto sul comportamento delle api e sullo sviluppo della colonia. I punteggi ottenuti in seguito a somministrazione orale dei prodotti su citati ad api controllate in laboratorio variano da circa 10.000 a circa 40.000 HQ. L’EPA (Environmental Protection Agency, USA) già dal 2003 ha definito il clothianidin come un composto cronicamente tossico per le api, con effetti che spaziano dall’impossibilità di sviluppo delle larve alla ridotta capacità riproduttiva dell’ape regina.
L’Italia è al primo posto in Europa per l’utilizzo di tali pesticidi.
Nonostante ciò, l’attuale sistema legislativo sottovaluta il problema e sembra piuttosto indirizzato a muoversi in direzione opposta. Nel luglio 2006, ad esempio, l’Europa ha permesso l’utilizzo del clothianidin nei pesticidi. In una recente intervista all’agenzia Il Velino, Silvio Borrello, Direttore Generale del Dipartimento della Sicurezza degli Alimenti e della Nutrizione del Ministero della Salute, ha affermato addirittura che al dicastero «non risulta alcuna domanda di sospensione cautelativa dei neonicotinoidi e nessuna ricerca è in corso sulla moria di api. Noi non abbiamo mai ricevuto alcuno studio pubblico e privato a riguardo». Eppure, in Francia l’uso di alcuni neonicotinoidi è stato bandito già dal 2002, mentre in Italia una richiesta in tal senso è stata inviata nel 2004 al Mipaaf (Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali) e al Ministero della Salute senza ottenere, però, alcuna risposta. Claudio Porrini, ricercatore presso la Facoltà di Entomologia agraria all’Università di Bologna, afferma che la strategia delle aziende produttrici è proprio quella di allungare i tempi circa le decisioni. Attualmente è in via di sospensione l’uso di uno dei pesticidi sotto accusa, ma già si sta immettendo sul mercato un nuovo prodotto dalla composizione simile. L’unica vera soluzione sarebbe quella di mettere al bando completamente questi prodotti; per salvare le api dall’intossicazione, infatti, non basta evitare di utilizzare i neonicotinoidi nei pressi degli alveari, in quanto un’ape alla ricerca di nettare e di altri nutrienti arriva a setacciare un’area nel raggio di otto chilometri.
Oltre all’utilizzo dei pesticidi, diversi scienziati ritengono che la diffusione di alcune forme di patologie e parassitosi possa rappresentare una concausa a questi decessi di api. Recentemente, un gruppo di ricercatori americani dell’ECBC (Edgewood Chemical Biological Center) di San Francisco e dell’Università della California ha messo a punto un nuovo sistema integrato di rilevazione dei virus, l’IVDS (Integrated Virus Detection System), che ha permesso di individuare un virus ed un parassita potenzialmente all’origine di molte morie di api.
Quasi sicuramente, l’aumento di questi fattori all’interno degli alveari è una conseguenza dell’abbassamento delle difese immunitarie dovuto proprio all’azione dei pesticidi ma, a detta di molti, anche le colture OGM hanno la loro responsabilità. Tra l’altro, da almeno vent’anni la maggior parte degli apicoltori propina alle proprie api antibiotici ed antibatterici per evitare infestazioni: mieli ricchi di questi prodotti arrivano soprattutto da Cina, Argentina, Turchia e Ucraina. L’eccesso di protezione, paradossalmente, rende le api più vulnerabili in quanto ceppi di virus e parassiti resistenti agli antibiotici diventano ancora più forti e difficili da debellare.
Si ipotizza, quindi, che le api perdano l’orientamento e siano indebolite a causa dei pesticidi e forse degli OGM, che vengano quindi attaccate da virus e parassiti e che l’alveare svuotato non sia di conseguenza ricolonizzato per evitare il rischio di infezioni. In molti casi, infatti, i sopravvissuti all’abbandono delle arnie presentavano contemporaneamente 5 o 6 infezioni virali e diverse infestazioni fungine. Il parassita più temuto dagli agricoltori è l’acaro Varroa destructor, proveniente dalla Cina. Come una zecca, si attacca sul dorso delle api (ma può anche infettare le larve) e ne succhia il sangue indebolendo drasticamente il sistema immunitario e fungendo da vettore per moltissime malattie.
In effetti, la Varroa è un parassita dalle dimensioni spropositate, l’equivalente di una zecca, paragonabile per grandezza ad uno zaino appeso sulla nostra schiena.
Recentemente un apicoltore statunitense, Michael Bush, ha affermato di aver risolto i suoi problemi con la Varroa senza bisogno di utilizzare antibiotici o altre sostanze, ma solo riportando le dimensioni delle celle delle arnie alla grandezza naturale.
Allo scopo di far nascere api giganti che producano più miele, infatti, il diametro delle celle degli alveari artificiali è di 5,4 mm contro i 4,6 mm di quelli naturali. Di conseguenza, le larve devono essere nutrite più a lungo prima di riempire la cella e di far scattare il periodo di incubazione. Sembra così che il periodo di crescita delle larve si prolunghi a tal punto da far aumentare esponenzialmente le possibilità di infestazione da parte della Varroa. Se questa teoria fosse vera, quindi, sarebbe addirittura la cupidigia degli apicoltori ad alimentare la crisi del settore. Per quanto concerne gli OGM (Organismi Geneticamente Modificati), il loro ruolo è ancora incerto sia nell’abbassamento delle difese immunitarie delle api, in particolare, che nella crisi in atto, in generale. Le ricerche al riguardo – effettuate tra gli altri dal Dipartimento di Scienze Biologiche della Simon Fraser University, dalla British Columbia University e dall’Università del Queensland – hanno tutte evidenziato una forte riduzione della presenza di api all’interno dei campi coltivati con colza OGM. Nessuno degli studi, però, parla di morte delle api né di scomparsa dalle arnie. In realtà, sembra semplicemente che i campi OGM siano meno frequentati da questi insetti perché offrono una varietà florale molto minore rispetto ai campi “normali”. Le coltivazioni geneticamente modificate, infatti, contengono spesso geni resistenti agli erbicidi con cui vengono irrorati i campi, mentre nelle coltivazioni normali questi forti erbicidi non vengono utilizzati permettendo così la crescita di erbacce e fiori di campo.
Secondo questo punto di vista, i campi OGM, più che un effetto tossico svolgerebbero un effetto repellente sulle api; un risultato assolutamente da non sottovalutare in quanto oltre a rendere più difficoltoso il procacciamento del nettare e della propoli, interi ecosistemi perderebbero il loro equilibrio a causa dello spostamento di masse di insetti e degli uccelli che se ne nutrono, con tutte le conseguenze del caso.
Un altro elemento ancora va tenuto in debita considerazione: molte piante sono state modificate introducendo il gene per le proteine Cry, estratte dal batterio del suolo Bacillus thuringiensis e che fungono da insetticida. Sembra che le Cry possano provocare squilibri intestinali nelle api che, se anche non muoiono, diventano una facile preda per virus e funghi; un articolo pubblicato sulla rivista Science afferma, tuttavia, che le quantità di Cry cui sarebbero esposte le api non è sufficiente ad indurre gli effetti suddetti sottolineando, invece, che i neonicotinoidi possono essere una causa più ragionevole.
Comunque sia, sul ruolo svolto dagli OGM nel “caso api” ancora mancano studi a lungo termine, solo a seguito dei quali sarà possibile dire l’ultima parola.
Fra le altre cause della crisi, vanno considerati anche i cambiamenti climatici che pare possano influire sulla comunità dell’alveare, i cui bioritmi sono finemente regolati dal susseguirsi delle stagioni, anche se al momento non vi sono prove in tal senso. Si è persino pensato ad un’influenza da parte delle onde elettromagnetiche dei cellulari e di altre fonti introdotte dall’uomo.
Un lavoro di un’équipe tedesca dell’Università di Landau ha dimostrato, infatti, l’influenza delle onde elettromagnetiche sull’orientamento delle api, ma lo studio è stato smentito da diversi esperti, tra cui Giorgio Celli, docente presso l’Istituto di Entomologia Agraria Guido Grandi dell’Università di Bologna e coordinatore del Gruppo di Ricerca sulle Alternative ai Pesticidi in Agricoltura. Sebbene la teoria sia plausibile, una vera correlazione tra onde elettromagnetiche e disorientamento delle api non è mai stata appurata e le eventuali conseguenze, afferma Celli, non possono minimamente essere paragonate a quelle provocate dai pesticidi sistemici neurotossici o dalle infestazioni di virus e batteri.
Un problema di grandi proporzioni
Le diverse cause che concorrono alla scomparsa e morte delle api sono così radicate che sembra impossibile riuscire a farvi fronte; tuttavia una reazione è assolutamente necessaria. Solo in Italia l’apicoltura dà lavoro a 50mila persone, per un valore commerciale di circa 60 milioni di euro all’anno; il danno, se continuasse la moria delle api e l’abbandono degli alveari, non si limiterebbe però solo al tracollo di un intero settore economico, bensì metterebbe in ginocchio il ciclo riproduttivo di milioni di piante che dipendono dalle api per l’impollinazione: meli, peri, susini, peschi, ma anche erba medica, grano, trifoglio, finocchio, aglio, girasole, soia… e molte altre ancora.
In un solo giorno, infatti, un’ape può visitare circa 700 fiori e poiché ogni alveare contiene in media 30.000 operaie, una colonia può visitare più di 20 milioni di fiori quotidianamente; l’importanza delle api, ma anche dei bombi, come impollinatori diventa quindi fondamentale. Fra le piante selvatiche, ben 22.000 specie dipendono dalle api per l’impollinazione. Il National Center for Ecological Analysis and Synthesis dell’Università della California a Santa Barbara (UCSB) ha appena portato a termine uno studio, iniziato nel 1981, in cui viene dimostrato che, a causa della carenza di insetti impollinatori, numerosi hot spot di biodiversità in tutto il mondo sono in serio pericolo.
Salvare le api significa quindi evitare il collasso dell’intero Pianeta. Per citare una frase attribuita ad Albert Einstein: «Se l’ape scomparirà dalla superficie della terra, allora agli uomini rimarranno solo pochi anni di vita. Non più api, non più impollinazione, non più piante, non più animali, non più uomo».
20 Agosto 2008 - Scrivi un commento