Più precisamente, viene vietata la fabbricazione e la distribuzione delle buste più sottili, quelle non abbastanza resistenti per essere riutilizzate, mentre i negozi sono obbligati a far pagare – indicandolo chiaramente – le buste più spesse. Lo scopo è però quello di provocare a un ritorno ai tradizionali cestini e alle borse di tessuto, da usare più e più volte.
Una scelta – se troverà piena attuazione – di enorme portata, se si pensa che il numero di buste di plastica utilizzate ogni giorno in Cina è stimato intorno ai tre miliardi. Ma è anche un tentativo necessario, a fronte di una crescita dei consumi che in Cina è, da decenni, tumultuosa e disordinata, tanto che nell'immaginario collettivo l'immenso Paese è diventato una sorta di modello in negativo per tutto ciò che concerne il controllo delle emissioni, il consumo di energia derivante dal petrolio, e il rispetto dell'ambiente in generale.
Stavolta la Cina sembra aver scelto una strada “verde”, in cui sicuramente ha un certo peso la volontà di presentarsi con un'immagine “pulita” al resto del mondo per le prossime olimpiadi di Pechino.
Le buste di plastica costituiscono un enorme problema ambientale: rompendosi facilmente, non possono essere usate più volte. Diventano presto spazzatura, non sono biodegradabili (rimangono nell'ambiente per più di mille anni), e quando finiscono nei fiumi e nei mari non solo causano danni alla fauna acquatica, ma soprattutto tendono ad accumularsi ostacolando il normale deflusso delle acque: è proprio per questo motivo che un paese come il Bangladesh, soggetto a violente inondazioni, ha deciso per il bando delle buste di plastica già anni fa.
Ma i problemi non riguardano solo il destino delle buste dopo che sono state usate: cercare di ridurne l'uso significa anche risparmiare il petrolio usato per la loro produzione.
La Cina è dunque l'ultimo Paese ad aggiungersi al crescente gruppo di nazioni che hanno optato per il bando delle buste di plastica: oltre al Bangladesh, anche il Sudafrica, Taiwan e l'Irlanda hanno varato provvedimenti di diverso tipo (dai divieti a misure di supertassazione) in questo campo, così come anche alcune città degli USA, fra cui San Francisco.
Tuttavia, la decisione del gigante asiatico potrà avere sicuramente un impatto maggiore: non solo sull'effettiva quantità di rifiuti non biodegradabili presenti su scala mondiale, ma anche nel trascinare su questa strada altri Paesi, se è vero, come fa notare Greenpeace, che la legislazione cinese è ora più avanzata di quella degli Stati Uniti.
E in Italia? Nella scorsa finanziaria (art. 1, comma 1129, 1130, 1131) è contenuto un provvedimento che stabilisce la messa al bando nel nostro Paese per il 2010: l'idea è anche quella di incentivare la produzione nazionale di sacchetti biodegradabili ottenuti da derivati del mais e del girasole, come il Mater-Bi, con cui gli italiani che fanno la raccolta differenziata dei rifiuti umidi hanno già familiarità. Tuttavia, a due anni (un tempo irrisorio) dall'entrata in vigore del provvedimento non sono state ancora date disposizioni per la sua attuazione, e la filiera agro-industriale sembra essere ben lontana dalla possibilità di produrre eco-shopper per tutti.
Di certo, però, noi cittadini non siamo obbligati ad aspettare le lungaggini dell'iter burocratico e legislativo: rinunciare ad accumulare buste di plastica e andare a fare la spesa con la classica sporta è una scelta che possiamo fare fin da subito. Magari anche optando per prodotti dagli imballaggi intelligenti, piatti e non inutilmente ingombranti, che ci consentano di dimezzare la quantità di sacchetti necessari; acquistando ricariche invece di ricomprare flaconi di detersivi; scegliendo la verdura sfusa, e non quella venduta con il suo vassoietto e avvolta in metri di pellicola di plastica.
Ma i provvedimenti generali che ci diano davvero una mano a mettere in pratica queste scelte devono arrivare, e presto.
13 Gennaio 2008 - Scrivi un commento