La rilevazione delle mine antiuomo e anticarro è il caso più noto dell’impiego di animali, segnatamente i cani, in operazioni militari, ma il bestiario bellico di cui gli eserciti si dotano è molto più ampio e pianta radici ben profonde nella storia militare.
Scovare mine antiuomo e anticarro è prerogativa dei cosiddetti Mine Detection Dog, cani esperti ad annusare esplosivi, ma da anni la frontiera di questo settore si è spinta oltre, dotandosi di altre due specie: i topi e le api.
Nel 1997, i ricercatori del progetto Apopo, finanziato con i fondi della cooperazione allo sviluppo belga, hanno scoperto l’infallibile fiuto dei criceti gambiani, la razza più grossa di topo esistente che arriva fino al kilo di peso, ed ha pensato di utilizzarli per le delicate attività di sminamento del territorio africano. Da allora i ricercatori belgi hanno effettuato esperimenti e training sul campo per mettere alla prova l'abilità dei topi, insegnando loro ad associare l'odore delle banane e delle noccioline, i loro cibi preferiti, a quello dell'esplosivo.
Gli animali perlustrano le aree sospette e raschiano il terreno per segnalare la presenza di ordigni. Ogni volta che individuano una mina, vengono ricompensati dall'addestratore con cibo e carezze. Nel 2004 hanno superato i primi test sul campo: in Mozambico, lungo una ferrovia minata nel corso della guerra civile, ognuno dei tre piccoli componenti della squadra-pilota ha scovato venti mine. A seguito della buona riuscita dell’esperimento le autorità mozambicane hanno ingaggiato le bestiole dell'Apopo per effettuare delle operazioni di bonifica su larga scala.
La possibilità di utilizzare le api per la rilevazione delle mine è stata, invece, scoperta nel 2004. Quell’anno Jerry Bromenshenk, dell'Università del Montana, ha scoperto di poter addestrare questi insetti utilizzando gli stessi principi dell' ammaestramento di cani e topi anti-mine. Le api, indotte ad associare l’odore dell’esplosivo al polline, sciamano nelle aree in cui percepiscono la presenza di TnT, il trinitrotoluene presente negli ordigni, avendo dalla loro parte, come per i topi, il fattore leggerezza, che impedirebbe di innescare il meccanismo di detonazione. Seguendo i loro spostamenti è quindi possibile tracciare una mappa delle zone contaminate.
Allo stesso risultato, nel 2007, è approdato un gruppo di ricerca guidato dal Professor Nikola Kezic dell’Università di Zagabria, in Croazia, dove la guerra dei Balcani tra il 1991 e il 1995, ha lasciato in eredità un Paese disseminato di mine.
Questo per quanto riguarda le mine terrestri, perché per quelle gettate in mare la questione è diversa e la storia prende tutta un’altra piega. Una piega che parte da molto lontano perché quando si parla di operazioni in mare non si fa riferimento solo all’intercettazione di ordigni, ma a vere e proprie operazioni di guerra.
La Marina militare Usa, ad esempio, già da tempo ha arruolato delfini ed otarie. I primi sono stati utilizzati già a partire dalla prima guerra del Golfo, nel 1991, mentre le otarie sono state utilizzate per la prima volta durante le operazioni della guerra in Iraq.
Non era la prima volta, in verità, che gli Stati Uniti ricorressero ai war-dolph, come vengono chiamati i delfini kamikaze, perché il loro utilizzo era già noto durante la guerra del Vietnam. In quegli anni, in cui dominava la contrapposizione USA-URSS, esistevano veri e propri programmi top secret per l’addestramento di animali per operazioni militari ad alto rischio.
Anche l'Unione Sovietica, infatti, durante la Guerra fredda ha dotato le Forze Speciali di una delle divisioni di cetacei (delfini e beluga bianchi) più famosa e disponeva di ben cinque centri di ricerca il più importante dei quali, creato nel 1966, era presso la base di Bukhta Kazachya, vicino Sevastopol. Tra i diversi incarichi, i delfini erano addestrati per servizi di guardia. Due sezioni di delfini, che operavano su turni di dodici ore, erano impiegati per controllare l'accesso alle basi più importanti.
Accanto ai delfini, a svolgere azioni subacquee sono state impiegate anche le otarie. In grado di raggiungere i 300 metri di profondità e di camminare sul fondale marino, per quanto non vengano scagliate come missili umani contro obiettivi nemici, allo stesso modo, secondo la Lav, le otarie subiscono un trattamento poco consono alle loro esigenze. Ricordiamo il caso dei leoni marini sbarcati all’isola d’Elba nell’ottobre del 2009, per seguire un particolare programma di addestramento. I Tg riportavano la notizia come un evento sensazionale capace di catalizzare l’interesse ed il divertimento di molti, ma non sottolineò il disappunto delle associazioni animaliste. Secondo Michela Kuan, biologa della Lav: “Le otarie subiscono un addestramento severo, lontano dalle loro esigenze comportamentali e fisiche. Soprattutto, non sono in grado di capire lo scopo di ciò che fanno né di valutarne i rischi che, in caso di ricerca di esplosivi, sono elevati”.
Come se non bastassero gli uomini a fare le guerre, c’è anche bisogno di qualcuno che faccia il lavoro sporco: i polli a morire asfissiati dai gas venefici, i cani a farsi esplodere sotto i tank nemici, i gatti a saltare per aria in mezzo ai campi minati, i pipistrelli incendiari. Un crudele sfruttamento in mimetica, un inutile sacrificio in nome dell’economia perché esistono già altri mezzi per l’individuazione delle mine e per rintracciare la presenza di sostanze chimiche e batteriologiche nell’aria, ma un animale da soffocare e fare esplodere costa infinitamente meno della tecnologia.
28 Febbraio 2010 - Scrivi un commento