Gli animali cosiddetti ‘da pelliccia’ quali volpi, procioni, conigli, ma anche cani e gatti (che in Cina non sono considerati animali d’affezione) vengono allevati in condizioni indescrivibili: tenuti in gabbie dove possono a malapena rigirasi, costantemente esposti a venti freddi per favorirne l’infoltimento del pelo, spesso impazziscono, arrivando anche ad automutilarsi, a causa della reclusione e della privazione dei più elementari bisogni etologici tipici della loro specie, quali la socializzazione e la territorialità.
Questi animali dopo aver sofferto a lungo per la libertà negata vanno incontro ad una morte terribile. Prelevati dalle gabbie e sollevati per la coda con delle pinze, vengono portati nel luogo del massacro. Appesi ad un gancio, vivi e perfettamente coscienti, gli vengono amputate le zampe con un coltello, letteralmente segate; poi, con tutta calma, gli viene sollevata la pelle delle zampe posteriori e strappata violentemente dal corpo. Gli animali durante lo scuoiamento sono ancora vivi in quanto lo stordimento che viene praticato, sbattendoli a terra violentemente, non ha che un effetto momentaneo, per cui poi si risvegliano al momento della scuoiatura.
Se questo non bastasse, l’animale, così completamente cosciente e privato della sua pelle, rimane in vita per altri 5 – 10 minuti… Questo avviene in Cina ed è stato documentato grazie all’Associazione Svizzera per la Protezione degli Animali e l’Associazione East International che hanno condotto nell’inverno del 2004/2005 la prima investigazione al mondo sulle condizioni di vita degli animali “da pelliccia” negli allevamenti cinesi, nelle principali province in cui è praticato questo tipo di allevamento (Shandong, Heilongjiang, Jilin, Hebei).
Le riprese video di tali investigazioni sono disponibili sul web per chiunque abbia voglia di verificare con i propri occhi (www.peta.org, www.protezione-animali.com) ciò che è veramente difficile credere, ma che purtroppo è realtà.
L’atrocità di un mercato che mette in atto simili barbarie a migliaia di chilometri di distanza dall’Italia non è tuttavia così lontana come sembra. Al contrario, la ritroviamo in casa nostra: ogni volta che entriamo in un grande magazzino o in un negozio d’abbigliamento, nel reparto dei giacconi è purtroppo molto frequente trovare la serie di quelli con cappuccio impellicciato, dove quella pelliccia così soffice, calda, morbida, decisamente ‘carina’ per alcuni, non riesce proprio ad evocare, nella mente di chi non sa, nulla di sanguinoso o immorale. Anche perché, diciamolo, molti credono veramente che si tratti di pelliccia sintetica; invece quella pelliccia è vera, tanto quanto lo sono le sofferenze che hanno subito gli animali ai quali apparteneva, e che nessuno aveva diritto a strappargli.
Nel nostro Paese il numero di aziende complessivamente impiegate nel settore della pellicceria (allevamenti, case d’asta, conciatori, grossisti…) si è ridotto notevolmente, passando da oltre 6.000 unità nel 1991 a 3.752 nel 2002 (fonte:16° Osservatorio pellicceria italiana) anche se il dato più sorprendente è la progressiva e netta diminuzione degli allevamenti nel corso degli anni: dai 170 nel 1988 ai soli 50 nel 2002 (fonte: Camera di Commercio)
La riduzione delle vendite di pellicce ha determinato un’energica reazione delle industrie del settore e la conseguente necessità di ricercare un altro sistema per rilanciarne la commercializzazione. L’industria ha quindi escogitato, subdolamente, un nuovo modo per riproporre un capo, la pelliccia, che sembrava avere altrimenti i giorni contati, in quanto le ragioni etiche portate all’attenzione dalle associazioni animaliste avevano avuto reale presa sull’opinione pubblica al punto che la pelliccia in senso tradizionale non era più un prodotto in grado di adattarsi alle nuove tendenze, perché eticamente non accettato.
Stravolta nella forma, nella funzione (non più come indumento intero, per coprire e tenere caldo, ma come guarnizione, semplice ornamento), nella dimensione, perfino nel colore, la pelliccia venne riformulata sotto forma di ‘inserto’, ossia di piccolo ritaglio con cui rifinire bordi, cappucci, polsini, cuciture, risvolti, ecc...
A partire dai primi anni novanta gli stilisti lanciarono quindi la nuova moda: giacche, cappelli, guanti, borse, sciarpe, e accessori di qualunque tipo ‘ornati’ di pelo animale, certi che il consumatore apprezzasse il nuovo prodotto, non essendo più in grado ormai di ricondurre così facilmente quel piccolo ritaglio di pelliccia, così camuffato e rimpicciolito, ad un animale, o comunque al concetto di pelliccia. E così infatti è stato.
Sono in molti, poi, a credere che quel ritaglio di pelliccia, ancorché vero, sia comunque il sottoprodotto e lo scarto di lavorazioni di pellicce intere, più costose, e che sarebbe stato altrimenti buttato. Questa supposizione è completamente sbagliata in quanto il mercato cinese che alleva e scuoia gli animali in questo modo è invece rivolto espressamente al confezionamento di giacche con bordi in pelliccia: questa viene conciata e poi esportata in Europa dove le case di moda, dai marchi più prestigiosi a quelli della moda giovane, la lavorano cucendola su giacche e accessori.
Quando pensando di metterci al riparo dall’essere complici del massacro che avviene in Cina verifichiamo con sollievo la targhetta con scritto ‘made in Italy’ stiamo cadendo ancora una volta nella trappola. Infatti un capo made in italy può contenere un elemento di finitura di pelliccia proveniente dall’estero, senza che sussista alcun obbligo per il produttore di indicarne l’origine. Inoltre, le specie animali impiegate per gli inserti sono differenti e ovviamente meno pregiate: cani, gatti, procioni, conigli e volpi. Per le pellicce intere invece in genere si allevano visoni e cincillà.
Allo stesso tempo, però, per mettere a tacere la coscienza del cliente non vuole rivelare la vera specie dell’animale, che spesso è cane o gatto, e utilizza pseudonimi e nomi di fantasia quali: wildcat, housecat, special skin, asian jackal, asiatic racoonwolf , dogue of China, gae wolf, gubi, kou pi, ecc… Questo sia perché la sensibilità dei clienti europei sarebbe turbata dall’idea di avere pelle di cane sulle spalle, sia anche per un problema di reali divieti, introdotti in Europa, che riguardano il solo commercio delle pellicce di cane e di gatto.
In Italia l'allevamento, l’importazione e il commercio delle pelli di cane e di gatto è illegale dal 2004 grazie alla legge 189/04 sui maltrattamenti degli animali. Naturalmente le associazioni animaliste e gli stessi consumatori - che stanno prendendo sempre più coscienza di ciò che indossano anche sull’onda della cultura del consumo critico - stanno cercando di accelerare il più possibile il processo di contrazione del mercato della pelliccia che dagli anni ‘90 ad oggi è comunque in atto, anche se, come detto, ancora lontano dall’essere definitamene debellato proprio a causa della moda degli inserti.
In seguito ad azioni di pressione di AIP (Attacca l’industria della pelliccia), da tre anni a questa parte, alcune importanti catene di abbigliamento sono state convinte ad adottare una politica “fur free”, ossia a non vendere più abbigliamento che contenga pellicce.
Tra le altre troviamo UPIM, La Rinascente, Oviesse, COIN, Coop, Guess, Zara, Stefanel. La speranza è che sull’esempio di queste grandi catene di negozi che hanno il potere di influenzare un’ampia fetta di mercato, il trend di giovani e meno giovani subisca una significativa svolta verso un abbigliamento cruelty free, per lo meno per quello che concerne le pellicce, ossia il mercato che uccide gli animali appositamente ed esclusivamente per la loro pelliccia.
27 Gennaio 2009 - Scrivi un commento