Tutto il circo dell’informazione è impegnato nel seguire l’evolversi della crisi, con l’ausilio di stuoli di esperti ed economisti pronti a rendersi interpreti di complicate analisi tecniche concernenti la situazione attuale, le supposte colpe pregresse e le soluzioni più gettonate, finalizzate ad uscire dalla crisi per poi tornare tutti a vivere “felici e contenti” come prima.
Si discute riguardo alle colpe di un turbo-capitalismo troppo spregiudicato, ci si rammarica per l’eccessiva fiducia riposta nella “mano invisibile del mercato”, si rimbrotta contro gli speculatori senza scrupoli, si stigmatizza un troppo disinvolto approccio con i pericoli della globalizzazione, si invoca una stagione ventura all’insegna di regole ferree, si auspicano gli interventi statali là dove per molti decenni l’unica parola d’ordine è stata “privatizzare”.
Ma davvero il crollo finanziario rappresenta il maggiore problema con il quale siamo chiamati a confrontarci e una volta “rimesse in piedi” artificialmente le banche (ammesso che ci si riesca) attraverso l’iniezione di migliaia di miliardi di denaro pubblico, tutto tornerà come prima e ricominceremo a consumare in maniera bulimica come se non fosse accaduto nulla?
La realtà è molto differente da quella che la classe dirigente occidentale sta tentando affannosamente di veicolare nell’immaginario collettivo. La crisi finanziaria rappresenta infatti solamente la punta di un iceberg di ben maggiori dimensioni, costituito dall’intero modello di sviluppo basato sulla crescita infinita, un modello economico e sociale che dopo avere “colonizzato” il 900 sta mortalmente collassando, posto di fronte all’impossibilità di crescere indefinitamente all’interno di un mondo dove tutto è finito e nulla può nutrire la presunzione di continuare a crescere senza sosta.
Da quasi due decenni (e negli ultimi anni in maniera più marcata) la società occidentale ha smesso di “crescere” nonostante abbia continuato a fondarsi su un modello economico e sociale anacronistico basato esclusivamente sulla crescita.
Il potere di acquisto di salari e pensioni risulta da tempo in caduta libera, le imprese che ancora non hanno delocalizzato la propria produzione nei paesi a basso costo di manodopera chiudono i battenti lasciando dietro di sé una lunga scia di disoccupati, i piani di programmazione industriale delle aziende pubbliche e private prevedono a breve termine il licenziamento di buona parte degli occupati. Diminuisce il numero delle persone in grado di percepire un reddito, diminuisce la capacità economica delle famiglie e di conseguenza disuniscono i consumi. Perfino negli Stati Uniti “patria del benessere economico” e da tempo immemorabile faro illuminante della nostra politica economica, le tendopoli create dai cittadini che hanno perso la casa non essendo più in grado di pagare il mutuo, stanno sorgendo come funghi a “popolare” le periferie delle grandi città.
Occorre al più presto ripensare un modello di sviluppo che ha ormai mostrato tutti i suoi limiti (che collidono con quelli del pianeta e delle sue risorse) e tentare di costruire una decrescita felice laddove si sta invece prefigurando una recessione catastrofica.
Occorre guardare ad una società moderna a misura di comunità e territorio che sappia riscoprire la centralità della persona e dei suoi bisogni reali, liberata dall’ossessione dell’economicismo, che non si proponga l’eliminazione dell’economia ma la sua reintroduzione all’interno del tessuto sociale, abbattendone il dominio assoluto su ogni aspetto della vita, che non rifiuti la tecnologia ma semplicemente ne condanni l’uso distruttivo messo in atto dal sistema della crescita.
Una società che si proponga di riscoprire la qualità della vita, i rapporti col prossimo, lo spirito della convivialità, l’autoproduzione, il dono, la reciprocità.
La scelta della decrescita è un’alternativa che passa attraverso una riduzione di scala, una cultura di empatia con l’ambiente e la natura, l’acquisizione di un nuovo senso del limite e delle proporzioni che sappia riscoprire come “piccolo è bello” e sia in grado di usare le risorse energetiche con raziocinio e in maniera costruttiva.
A prescindere da quale sarà la sorte delle banche e dell’intero sistema finanziario, tutto non tornerà comunque come prima, sta solo a noi scegliere fra il salto nel vuoto della recessione selvaggia o il dolce declivio della decrescita e dimostrare che dai nostri errori abbiamo in fondo imparato qualcosa.
9 Ottobre 2008 - Scrivi un commento