Eppure ci sono cose che meritano d’esser fatte nonostante il senso comune dica il contrario. Ad esempio quando un articolo assume lo spessore di una meditazione sul valore (negato) della vita e sull’etica (storpiata) della storia che da millenni è attuale e chissà per quanto lo sarà ancora.
L’articolo è Il pianto degli agnelli e il dolore del mondo di Susanna Tamaro, pubblicato sul Corriere della Sera il 28 marzo 2010. Ma non è da lei che vorrei cominciare, bensì da un’altra donna: Mercedes Bresso la quale, in quegli stessi giorni, ci diede anche lei una lezione sugli stessi temi, ma di segno opposto.
Ero già inciampato in Mercedes Bresso alcuni anni fa quando si era resa responsabile del massacro di alcune centinaia di caprioli “in soprannumero”. Me la ritrovo davanti oggi, alle prese con la popolazione della Val di Susa minacciata dall’irruzione della ferrovia ad alta velocità e ritrovo nelle sue parole, nel suo atteggiamento di sprezzante sufficienza, nelle pose mussoliniane di coloro che la affiancano la stessa macabra arroganza di allora.
Davvero sa ciò che dice chi afferma che il disprezzo per la vita umana e quello per ogni altra forma di vita viaggiano su due binari paralleli. Ecco, è questo il tema dell’articolo di Susanna Tamaro.
Si avvicinava dunque la Pasqua “santa” e ai prati si avvicinavano gli autocarri “che caricano i piccoli delle pecore e delle capre”. Centinaia di migliaia di agnelli, come ogni anno, vengono così strappati alla loro vita per essere divorati in una “santa” orgia necrofila sulle tavole imbandite mentre in quei prati sui quali nessuno più gioca o accorre al richiamo delle madri per la poppata, quelle stesse madri “per tre giorni corrono incredule da un lato all’altro chiamando a gran voce. (…) Poi, dopo tanta agitazione, sulle campagne scende il silenzio”.
E di coloro che sono stati fino a un attimo prima l’immagine perfetta della vitalità e della gioia rimangono cadaveri scuoiati e tagliati a pezzi e, “schiacciati da una pellicola di cellophane, quegli occhi opachi e quei dentini che già strappavano la prima erba”.
Fermiamoci un momento su questa frase: che dire di una cultura che ha perso la capacità di percepire l’orrore, il macabro nell’immagine che essa evoca? E che assiste indifferente al massacro come a cosa normale? “L’altro giorno”, continua la Tamaro, “mi ha chiamato un’amica che lavora vicino al mattatoio. Mi sono messa i tappi, ma non serve a niente. Vengono scaricati ogni giorno, a centinaia, e urlano con voci da bambini, disperate, rauche, in preda al terrore, ma, a parte me, nessuno sembra farci caso” (…) E’ Pasqua e questo è il rumore della Pasqua”.
Nessuno sembra farci caso. E in effetti, nessuno ci fa caso, come non fa caso all’orrore quotidiano che il televisore (ultrapiatto e ad alta definizione, ovviamente) gli vomita addosso ogni giorno. La morte è da lungo tempo entrata a far parte dello spettacolo quotidiano. La si osserva, la si degusta da dietro un vetro, al “sicuro” ma sempre più da vicino, con sempre maggiore ricchezza di dettagli. Si chiama guerra, si chiama abbacchio, si chiama carestia, si chiama sperimentazione sul vivente, si chiama missione di pace, si chiama caccia, energia nucleare, marea nera, sviluppo, bistecca, si chiama con mille nomi che significano una cosa sola. Una sola.
“La contemplazione della morte”, scrive ancora la Tamaro, “non può non provocare un profondo senso di timore”. Ma non qui, non adesso, non in un mondo che della morte (altrui) ha fatto motivo di diletto, spettacolare o culinario o d’altro genere. E per far ciò ha dovuto e voluto farne anche oggetto di assuefazione e indifferenza (“La catena di morte del macello non è che una catena fra le altre”). Produrre “tagli di carne”, produrre automobili, produrre mine, produrre televisori. Tutto va bene, tutto è normale. Passare accanto alle urla di agonia di chi muore nei macelli, di chi muore sulle mine, e non udirle più di quanto non si oda il rumore del traffico nelle sempre più numerose e fragorose ore di punta..
Ho visto alcuni anni fa un ragazzo trovare comica quella disperata sequenza d'un film in cui un soldato cerca fra i cadaveri il braccio che una granata gli ha strappato. Penso con paura alla sua giovane età, a tutto il tempo che avrà per trasmettere se stesso al mondo intorno a sé. Immagino che in questa Pasqua anche sulla sua tavola ci sia stato uno di quegli agnelli scuoiati e rinchiusi nel cellophane.
Ricordo anche un giorno ancor più lontano in cui ero in Umbria, in visita a una fattoria bioregionalista dove l'allevamento delle pecore è una delle principali attività. Erano i giorni prima di Pasqua. Da una baracca di legno senza finestre a un centinaio di metri dall'edificio principale provenivano degli insistenti belati che facilmente si riconoscevano come quelli di un agnello. Lì vicino il gregge pascolava. Ogni tanto da esso si staccava una pecora adulta - chi altri se non la madre? - correva, anche lei belando, verso la baracca, si fermava davanti a essa e rimaneva lì ferma per un po', guardandola fissamente senza sapere che fare.
Poi, lentamente e in silenzio, tornava indietro. Questa scena si ripetè molte volte, poi smisi di guardare. Ciò che mi colpì di più fu che ogni volta che la madre si staccava dal gregge per avvicinarsi alla baracca in cui era rinchiuso suo figlio lo faceva correndo; ogni volta che tornava indietro lo faceva molto lentamente. Molto lentamente.
E' questo il mondo che vogliamo?
4 Maggio 2010 - Scrivi un commento
Come non pensare che tutto questo dolore potrebbe ricadere su di noi?
Smettiamola di giustificarci dicendo che la carne è un alimento necessario per la nostra salute; sappiamo che ci sono integratori che sopperiscono alla mancanza di vitamine o proteine presenti nella carne.