Qualcuno in California sostiene di averlo fatto. Si tratta della Bloom Energy Corporation, una compagnia insediatasi nella Silicon Valley, fondata da un gruppo di ingegneri che in passato ha collaborato con la NASA.
Coinvolti nel programma di spedizione su Marte, essi hanno sviluppato una tecnologia per produrre aria da respirare e carburante per il trasporto, necessari in un’eventuale impresa di tal tipo. Ben presto essi si resero conto che i loro studi avrebbero potuto avere un impatto persino maggiore qui sulla Terra, pertanto iniziarono a lavorare al progetto che si è tradotto poi nell’attuale “Bloom Energy Server”.
Secondo quanto K.R. Sridhar, Amministratore Delegato e co-fondatore dell’azienda, spiega ai microfoni della CBS, le celle a idrogeno che essi hanno lanciato sul mercato sono del tipo SOFC, ossia fanno ricorso ad un elettrolita solido rappresentato da un composto ceramico non poroso, ma sono di nuova generazione. Esse cioè si differenziano dalle altre per varie ragioni.
Prima di tutto impiegano materiali poco costosi, cioè l’elettrolita è realizzato a partire da una polvere tipo sabbia (composta dunque prevalentemente di quarzo, ossia diossido di silicio) senza includere metalli preziosi (come il platino) o sostanze corrosive (acidi). In secondo luogo l’efficienza è molto alta: i realizzatori delle celle Bloom sostengono di poter arrivare fino ad un valore doppio rispetto a quello delle altre celle ad idrogeno. Inoltre il sistema può essere alimentato con fonti sia fossili sia rinnovabili.
Già perché, si faccia attenzione, le celle a idrogeno hanno bisogno di una sorgente di energia per funzionare. La cosa appare un controsenso: ma come, non è l’idrogeno la fonte? Di fatto l’idrogeno è solo un “vettore” dal momento che non si trova in natura allo stato libero, bensì sempre legato con altri elementi a formare composti. Per essere impiegato, dunque, esso deve essere liberato, ossia “prodotto” a partire dai composti che lo contengono che, guarda caso, sono il carbone, il metano e gli idrocarburi. Anche l’acqua, certo, ma l’elettrolisi, processo chimico attraverso cui si strappa l’idrogeno al vapore acquoso, necessita a sua volta una tal quantità di energia da rendere del tutto inefficiente il sistema.
Come si è detto, affinché la reazione abbia luogo, è necessario che l’idrogeno sia liberato da un altro composto in cui si trova intrappolato, questo processo è detto “reforming”. Esso avviene direttamente al’interno delle Bloom Energy cells. Se si impiega il metano, ad esempio, si avrà come prodotto finale, oltre all’acqua, anche una parte di anidride carbonica, che come ben sappiamo è causa di effetto serra. La CO2 è in proporzione di 1 a 4 rispetto all’acqua prodotta, ma non è comunque trascurabile, quindi in questi termini il processo non è del tutto pulito.
Shridar sostiene però che il metano impiegato a parità di energia prodotta sia significativamente inferiore rispetto a quello richiesto dai normali impianti a gas naturale, pertanto il gioco varrebbe comunque la candela.
Inoltre le celle possono funzionare anche tramite biogas, ossia i gas provenienti da processi di fermentazione batterica di rifiuti urbani e agricoli. In tal caso le emissioni di anidride carbonica, che comunque ci sarebbero, sarebbero ad impatto zero. Ciò perché la CO2 emessa nell’atmosfera non sarebbe di “nuova produzione”, bensì costituirebbe semplicemente la liberazione di quella fissata da piante e animali nei loro normali processi biologici: in pratica si resterebbe nell’ambito dei cicli vitali normali.
Più energia è necessaria, più moduli si impiegano. Con un ingombro piuttosto limitato.
Varie compagnie negli Stati Uniti stanno già utilizzando i moduli Bloom Energy per soddisfare una parte delle proprie richieste. Tra di esse si annoverano Google, FedEx Express, Ebay, Walmart e Staples. Esse si dichiarano soddisfatte poiché stanno risparmiando in termini economici e in fatto di impatto ambientale.
“Pensiamo di poter avere sul mercato dell’energia lo stesso impatto che il telefono cellulare ha avuto nelle telecomunicazioni” dichiara Sridhar. Mentre alcuni detrattori manifestano dubbi in merito: un conto è far funzionare le celle per qualche anno, diverso è farlo per 20, 30 anni. Occorre vedere allo specchio dei tempi se l’investimento valga effettivamente quel che promette.
Ma è persino più importante che ad essere mantenute siano le promesse riguardo all’impatto ambientale. Sarà così? Lo si spera, ma il buon senso (e gli anni di sperimentazione su vari tipi di celle già trascorsi) ci spingono a mantenerci cauti.
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