Questi, però, poi si condensano in esportazione delle derrate alimentari prodotte nei paesi che possiedono le aziende agricole stesse. E le cifre di questo affare non sono piccole. Secondo alcuni calcoli gli agricoltori cinesi stabilmente insediati in Africa potrebbero arrivare a un milione entro il 2010. 14 le aziende agricole africane della Repubblica Popolare Cinese ripartite in vari paesi come Uganda, Zambia, Zimbabwe, Tanzania.
7,6 i milioni di ettari acquistati dai paesi “colonizzatori” all'estero nel 2008, pari a circa la metà della superficie coltivabile italiana.
La motivazione più evidente di questa moderna politica coloniale è quella di far fronte alla crisi mondiale con adeguate riserve alimentari, dato che molti di questi paesi dipendono in proporzioni diverse, ma comunque elevate, dall'importazione di generi alimentari (la Corea del Sud ad esempio vi dipende per più del 60%). Ovviamente la forte crescita demografica di alcuni di essi è un fattore altrettanto valido di spinta in questo senso.
Fin qui le informazioni dovute e il quadro delineato dai media.
Poi possiamo provare a fare delle riflessioni aggiungendo qualche altro dato.
Il World Watch Institute segnalava già nel 2001 che “Nell'America centrale e meridionale, l'allevamento è responsabile di quasi la metà della perdita di superficie della foresta pluviale”. (1)
Senza contare quando i terreni vengono usati per colture che producono biocarburanti. Anche in questo ambito ormai si sta sempre più facendo chiarezza. I dati sul risparmio effettivo di CO2 e sulla resa energetica con i biocarburanti non sono così entusiasmanti. L'inquinamento chimico del terreno dovuto alla coltivazione di queste piante e il consumo enorme di acqua necessaria depauperano il territorio (per produrre un litro di biodiesel servono 4000 litri di acqua tra irrigazione e processo chimico di trasformazione). Alcuni esperti delle Nazioni Unite hanno recentemente affermato che la coltivazione di colture per i biocarburanti rappresenta un crimine contro l'umanità.
Quanti terreni in meno servirebbero se si avesse una maggiore coscienza del cibo e del proprio stile di vita?
Cosa stiamo aspettando? Che le multinazionali degli Ogm colgano l'occasione al volo implementando le loro “ragioni” e ci prendano per l'orecchio costringendoci a mangiare la nauseante pozione “magica” che ci hanno preparato?
Oppure ci aspettiamo che i potenti dei G8, o chi per loro, di punto in bianco superino il concetto di economia di mercato e di lauti profitti ai vincenti e condividano ciò che rimane del pianeta ex-azzurro con i fratelli africani e asiatici? Ci crediamo davvero nel fondo dell'animo?
Non è “per caso” solo una contagiosa rivoluzione del quotidiano quella che può sollevare in noi stessi la coscienza e nel mondo la sofferenza agli altri? I grandi “verbi” innovatori del passato che hanno portato un vento nuovo nell'umanità come si sono diffusi? Con i G8 d'altri tempi? Non mi pare proprio. Anzi. Sempre dal basso, checché se ne dica.
Zappiamo e seminiamo nel nostro pezzetto di terra, mangiamo vegetali, non sprechiamo e non ingrassiamo. Il resto si metterà in moto. Meglio lentamente ma durevolmente. In maniera orizzontale e non verticale. Perché la terra è di tutti.
(1) Halweil, Brian, “L'incremento numerico degli animali da allevamento”, in World Watch Institute, I trend globali 2001. Futuro, società e ambiente, Edizioni Ambiente, Milano, 2001, p. 45.
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