Questa nuova pagina della faida tra Israele e Palestina pone domande vecchie. Eppure bisogna seriamente sforzarci di trattarlo come un fatto nuovo, sia perché non dobbiamo intorpidirci di fronte agli eterni ritorni di questo conflitto, sia perché siamo davvero davanti a un evento nuovo, con caratteristiche proprie. Per come è nato, questo scontro è stato descritto come la più dura invasione mai compiuta da Israele nella Striscia di Gaza. Almeno duecento palestinesi sono morti nel primo giorno. Oggi i morti sono settecento, di cui almeno un quarto civili e cento bambini. Sono le cifre ufficiali, che i canonici “almeno” arrotondano per difetto. I carri armati israeliani stazionano fuori dalle città, in attesa dell’ordine che darebbe il via alla terza fase, verosimilmente la più sanguinosa.
Il capo del governo Ehud Olmert e la ministra degli esteri Tsipi Livni hanno dichiarato a più riprese almeno due obiettivi differenti: fiaccare Hamas per rinegoziare una tregua molto più favorevole, oppure rovesciarla. Già queste pubbliche contraddizioni fanno pensare che dietro alla risolutezza israeliana non ci sia grande concordanza di intenti. Ma alzando appena lo sguardo si colgono altri due moventi fondamentali per il conflitto.
Innanzitutto le elezioni politiche in Israele del prossimo 10 febbraio. Sia Olmert (che però è premier uscente perché inquisito per corruzione) e Tzipi Livni (attuale ministro degli esteri) da un lato, che Ehud Barak, (oggi ministro della difesa) dall’altro, vogliono recuperare consensi per i loro partiti – rispettivamente, il centrista Kadima e quello laburista – nei confronti di Netanyahu, leader del conservatore Likud, che era in vantaggio nei sondaggi. Ma oggi che la società israeliana slitta a destra, l’aggressività paga, e i sondaggi degli ultimi giorni rilanciano i partiti di governo. La guerra come una scommessa elettorale ben riposta, almeno per ora. Ma anche una versione della democrazia israeliana molto distante da quella liberale e illuminata di cui spesso Tel Aviv si vanta per distinguersi dai regimi politici palestinesi.
Se questi sono importanti fattori di sfondo del conflitto, le parole della diplomazia e della politica internazionale raccontano altro. Israele spiega l’invasione come risposta ai missili che, a decine, Hamas ha ripreso a sparare da dicembre verso le città israeliane nel deserto del Negev. Un inequivocabile atto criminale, nonostante la scarsa efficacia balistica. D’altra parte Hamas replica che i razzi sono una reazione a violazioni degli accordi relativi alla tregua del giugno scorso, come l’avere mantenuto e irrigidito il blocco della Striscia di Gaza, o l’uccisione di sei membri di Hamas nel novembre scorso. E ciascuna parte saprebbe come rispondere a ogni ulteriore accusa.
Seguire il filo di queste rivendicazioni ha il senso di cercare di ricostruire gli eventi e dare loro un peso, ma è proprio il gioco infinito dello scarico delle responsabilità che permette di affossare dibattiti di ben altro valore. La risposta, che appare persino logica, del dente per dente, è schiava dell’emotività, e a volte del calcolo politico. E la vicenda israelo-palestinese è un tale grumo di ingiustizia e sofferenza, da offrire sempre, nel passato recente o lontano, qualche recriminazione che autorizzi a rovesciare il tavolo.
La soluzione “uno stato, due nazioni”, per esempio, è del tutto sparita dal discorso ufficiale, scalzata dall’ipotesi dei due stati. Il punto è proprio che in questa fase sembra inimmaginabile qualsiasi pensiero esca dai ristretti contorni del dibattito attuale. Un dibattito che ora nemmeno ha più luogo. Con la guerra persino alcuni semplici elementi di realtà, come la sproporzione fra le sofferenze dei belligeranti, vengono negati o rimossi dalle coscienze (quando non proprio dai media). Ma basta leggere i dispacci quotidiani dell’attivista Vittorio Arrigoni, unico italiano a Gaza, per farsi un’idea. A meno di non ritenerlo un bugiardo, i suoi resoconti, così come quelli di tanti altri volontari stranieri, rimettono in equilibrio la versione israeliana, che nega l’esistenza di una emergenza umanitaria.
E’ la logica dell’urgenza politica, se non guerresca, a deformare la capacità di giudizio e a prendere in ostaggio ogni visione che vada in profondità. Una logica che era estranea anche a due grandi personaggi di origine ebraica, Susan Sontag e Hannah Arendt, che hanno saputo spiegare come si eclissa la pietà per il “dolore degli altri”.
Ci sono, allora, ragioni sia umanitarie che strategiche perché nella Striscia di Gaza tacciano subito le armi. Ma c’è anche la consapevolezza che per ricominciare a sentire e pensare soluzioni alte occorra, in Palestina e in Israele, il silenzio.
7 Gennaio 2009 - Scrivi un commento