Medio Oriente

Gaza, nessuna vittoria

Tredicesimo giorno, il conflitto di Gaza è a un bivio. Le trattative per il cessate il fuoco tra Israele e Palestina si incrociano con l’attesa per un prossimo attacco degli israeliani all’interno delle città e i primi razzi sparati dal Libano. Intanto le parole ufficiali della guerra e della politica prendono in ostaggio qualsiasi tentativo di un confronto profondo sul futuro di Gaza e sull’intera questione israelo-palestinese.

CONDIVIDI: Condividi su Facebook Condividi su Ok Notizie Condividi su Fai Informazione Condividi su del.icio.us Condividi su Twitter Condividi su Digg Condividi su Technorati Condividi su Google

di Stefano Zoja


Lasciamo in pace i morti. Non siamo noi a doverli evocare, saranno loro a chiamarci domani, quando sarà tornato il silenzio. Tanti bambini, invece, sopravviveranno. Giorni trascorsi stando accucciati nella stanza con meno finestre, in una casa senza più luce, che ogni tanto trema per le bombe. Le deflagrazioni sorde, gli odori forti e mai sentiti prima, l’impotenza degli adulti li fanno piangere. Che cosa sarà domani di questa generazione di piccoli di Gaza, che dell’operazione “Piombo fuso” non conoscono nemmeno il nome? E i politici e i militari israeliani che l’hanno decisa, hanno una percezione chiara delle loro mosse? Quale valore strategico e storico avrà la probabile vittoria militare di Israele?

Questa nuova pagina della faida tra Israele e Palestina pone domande vecchie. Eppure bisogna seriamente sforzarci di trattarlo come un fatto nuovo, sia perché non dobbiamo intorpidirci di fronte agli eterni ritorni di questo conflitto, sia perché siamo davvero davanti a un evento nuovo, con caratteristiche proprie. Per come è nato, questo scontro è stato descritto come la più dura invasione mai compiuta da Israele nella Striscia di Gaza. Almeno duecento palestinesi sono morti nel primo giorno. Oggi i morti sono settecento, di cui almeno un quarto civili e cento bambini. Sono le cifre ufficiali, che i canonici “almeno” arrotondano per difetto. I carri armati israeliani stazionano fuori dalle città, in attesa dell’ordine che darebbe il via alla terza fase, verosimilmente la più sanguinosa.

Il capo del governo Ehud Olmert e la ministra degli esteri Tsipi Livni hanno dichiarato a più riprese almeno due obiettivi differenti: fiaccare Hamas per rinegoziare una tregua molto più favorevole, oppure rovesciarla. Già queste pubbliche contraddizioni fanno pensare che dietro alla risolutezza israeliana non ci sia grande concordanza di intenti. Ma alzando appena lo sguardo si colgono altri due moventi fondamentali per il conflitto.

Innanzitutto le elezioni politiche in Israele del prossimo 10 febbraio. Sia Olmert (che però è premier uscente perché inquisito per corruzione) e Tzipi Livni (attuale ministro degli esteri) da un lato, che Ehud Barak, (oggi ministro della difesa) dall’altro, vogliono recuperare consensi per i loro partiti – rispettivamente, il centrista Kadima e quello laburista – nei confronti di Netanyahu, leader del conservatore Likud, che era in vantaggio nei sondaggi. Ma oggi che la società israeliana slitta a destra, l’aggressività paga, e i sondaggi degli ultimi giorni rilanciano i partiti di governo. La guerra come una scommessa elettorale ben riposta, almeno per ora. Ma anche una versione della democrazia israeliana molto distante da quella liberale e illuminata di cui spesso Tel Aviv si vanta per distinguersi dai regimi politici palestinesi.


La seconda ragione è l’imminente ingresso alla Casa Bianca di Barack Obama. Con lui e Hillary Clinton non ci sarà nessuna primavera palestinese, ma il loro arrivo – e la semplice chiusura dell’era Bush – spariglieranno le carte della diplomazia internazionale. Pacifisti e combattenti di ogni fronte si troveranno a giocare una partita nuova, forse seriamente tesa a una riconciliazione delle parti, sicuramente lontana dall’irrealistico gioco di prestigio tentato da Bush ad Annapolis. A questo appuntamento gli israeliani sembrano volersi presentare da una posizione di ulteriore controllo. Con un fronte palestinese diviso, e Hamas indebolita o persino annichilita. E, in attesa di una nuova, presumibile epoca della responsabilizzazione internazionale, queste sono le ultime settimane in cui si può utilizzare la forza con mano abbastanza libera.

Se questi sono importanti fattori di sfondo del conflitto, le parole della diplomazia e della politica internazionale raccontano altro. Israele spiega l’invasione come risposta ai missili che, a decine, Hamas ha ripreso a sparare da dicembre verso le città israeliane nel deserto del Negev. Un inequivocabile atto criminale, nonostante la scarsa efficacia balistica. D’altra parte Hamas replica che i razzi sono una reazione a violazioni degli accordi relativi alla tregua del giugno scorso, come l’avere mantenuto e irrigidito il blocco della Striscia di Gaza, o l’uccisione di sei membri di Hamas nel novembre scorso. E ciascuna parte saprebbe come rispondere a ogni ulteriore accusa.

Seguire il filo di queste rivendicazioni ha il senso di cercare di ricostruire gli eventi e dare loro un peso, ma è proprio il gioco infinito dello scarico delle responsabilità che permette di affossare dibattiti di ben altro valore. La risposta, che appare persino logica, del dente per dente, è schiava dell’emotività, e a volte del calcolo politico. E la vicenda israelo-palestinese è un tale grumo di ingiustizia e sofferenza, da offrire sempre, nel passato recente o lontano, qualche recriminazione che autorizzi a rovesciare il tavolo.

La soluzione “uno stato, due nazioni”, per esempio, è del tutto sparita dal discorso ufficiale, scalzata dall’ipotesi dei due stati. Il punto è proprio che in questa fase sembra inimmaginabile qualsiasi pensiero esca dai ristretti contorni del dibattito attuale. Un dibattito che ora nemmeno ha più luogo. Con la guerra persino alcuni semplici elementi di realtà, come la sproporzione fra le sofferenze dei belligeranti, vengono negati o rimossi dalle coscienze (quando non proprio dai media). Ma basta leggere i dispacci quotidiani dell’attivista Vittorio Arrigoni, unico italiano a Gaza, per farsi un’idea. A meno di non ritenerlo un bugiardo, i suoi resoconti, così come quelli di tanti altri volontari stranieri, rimettono in equilibrio la versione israeliana, che nega l’esistenza di una emergenza umanitaria.

E’ la logica dell’urgenza politica, se non guerresca, a deformare la capacità di giudizio e a prendere in ostaggio ogni visione che vada in profondità. Una logica che era estranea anche a due grandi personaggi di origine ebraica, Susan Sontag e Hannah Arendt, che hanno saputo spiegare come si eclissa la pietà per il “dolore degli altri”.


Questa capacità empatica, e insieme di analisi, si è oggi rarefatta in Israele, tranne poche rilevanti eccezioni. Un sondaggio di pochi giorni fa diceva che oltre il 70% degli israeliani erano favorevoli ai bombardamenti aerei, mentre solo il 20% a un’invasione di terra. A un’operazione che, cioè, mettesse a rischio le vite dei propri uomini e donne. Da questo orizzonte spariscono le sofferenze, oltre che le ragioni, dei Palestinesi. E nessuno sembra potere ricordare a Olmert e ai suoi colleghi come spesso sono finite queste operazioni. Con i morti nelle strade e il rancore assoluto di chi rimane. Uno scenario in cui non c’è vittoria e che strangola le voci di chi sa immaginare la pace, se non la convivenza.

Ci sono, allora, ragioni sia umanitarie che strategiche perché nella Striscia di Gaza tacciano subito le armi. Ma c’è anche la consapevolezza che per ricominciare a sentire e pensare soluzioni alte occorra, in Palestina e in Israele, il silenzio.

7 Gennaio 2009 - Scrivi un commento
Ti � piaciuto questo articolo? Cosa aspetti, iscriviti alla nostra newsletter!

E-mail
Arianna Editrice
Macro Credit
Mappa Mondo Nuovo
PAROLE CHIAVE
ULTIMI ARTICOLI PUBBLICATI
LINK ESTERNI
TERRANAUTA TV
Alex Zanotelli e la privatizzazione dell'acqua
Altri video su TERRANAUTA TV...
ARTICOLI CORRELATI
ULTIMI COMMENTI
gian_paolo ha commentato l'articolo Nucleare e salute, un'altra ragione per dire no
carlo ha commentato l'articolo Quel che resta del Polo
linda maggiori ha commentato l'articolo Latte materno, diossine e Pcb
Simone ha commentato l'articolo Prahlad Jani, l'asceta che si autoalimenta da 74 anni
grazia ha commentato l'articolo Orti urbani: sostenibilità e socialità