Gomorra

Dal libro scandalo di Roberto Saviano al film di Matteo Garrone: Gomorra; ovvero come la finzione riesca a far percepire la catastrofe ambientale.

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di Giancarlo Simone Destrero


Nell’immanente girone dantesco messo in scena da Matteo Garrone, il groviglio di corpi, membra e sangue, sembra vivere una realtà parallela rispetto a quell’ovattato mondo di provincia che tanto cinema racconta.

Eppure, Gomorra fotografa una realtà che -pur se portata al parossismo nel film, per esigenze drammaturgiche- si sviluppa quotidianamente nelle province della Campania (nel film siamo nel quartiere napoletano di Scampia) regione confinante col nostro Lazio. Appena 200 chilometri a sud della capitale, ed il nostro purgatorio urbano degenera in inferno sociale.

L’opera del regista romano sintetizza il libro di Roberto Saviano in 5 microstorie di criminalità. Un cinema antropocentrico, che segue fluttuante questi eroi negativi, si attacca ai loro primi piani, si incolla con la macchina da presa al loro tragico destino.

Sequenze che ci mostrano l’aberrazione di un’umanità scimmiesca, degradata ignorantemente ad un ambito cinicamente profano, e che testimoniano come sia difficile, ormai, risolvere la latitanza dello stato in queste zone del paese; immagini che fotografano, senza filtro alcuno, la drammatica situazione meridionale.

Ecco che però poi, in una delle storie filmate, il dramma di questi scimmioni capitalizzati tracima in inquietanti livelli catastrofici. Tutto quello che avevamo annusato nell’aria, anche grazie alla visione di documentari come Biutiful Cauntri e Civiltà Bruciata- La terra degli inceneritori, si palesa davanti ai nostri occhi.

Dai ristretti primi piani di quelle triviali beghe umane passiamo al campo totale di una cava abbandonata, predizione dell’incestuoso futuro che il marciume umano perpetrerà nei confronti della madre terra. Così, purtroppo, ci spostiamo dal piccolo, il particolare umano -trascurabile in quanto rinnovabile, confidando in una parziale palingenesi- al grande, la vitale Gaia che, da un momento all’altro, potrebbe non perdonarci più e non darci più tempo per poter tornare ad un rapporto sacrale con lei.

E’ la storia di Franco e Roberto. Uno spudorato imprenditore, che gestisce una ditta di smaltimento rifiuti ed il suo neofita assistente. Qui la finzione mette in scena tutto quello che, appunto, si era raccontato nei precedenti documentari, quello che tanti contadini o allevatori avevano testimoniato, stando a contatto quotidianamente con gli effetti di queste cause apocalittiche: i frutti malati delle terre intossicate.

Le poche sequenze di questa microstoria sono una sintesi del processo ecocriminale che già è stato denunciato: i sopralluoghi nelle cave da adibire a discariche illegali di rifiuti tossici, i viaggi lavorativi per discutere e stipulare contratti con le grandi industrie del nord –che, nelle persone dei loro amministratori, se ne fregano delle trasmutate conseguenze future, a beneficio della certificazione legale dei processi burocratici che permette di smaltire, nell’immediato, le scorie tossiche dei prodotti con i quali si arricchiscono- l’effettivo sversamento dei rifiuti sul posto, tramite camion che si intrufolano in impervie vie d’accesso.

Un film spietato, nel complesso, che fa emergere, però, proprio in questa storia di ecoreati, una piccola speranza individuale. La ribellione di Roberto nei confronti del suo principale, dopo aver visto coi propri occhi il frutto di quello sporco lavoro, è la ribellione che ognuno di noi spettatori dovrebbe avere contro questo disgustoso sistema di produzione consumistico.

Far sì che lo sdegno individuale diventi, davvero, presa di coscienza di massa e possa generare una classe politica dignitosa che riesca ad imporre -non essendoci purtroppo alternative efficienti, di etica individuale e senso civico, condivise a stragrande maggioranza- il supremo rispetto verso l’ambiente.

8 Giugno 2008 - Scrivi un commento
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