Va detto che se si prova a tirare il filo della fame del mondo si arriva a una matassa di fattori e concause: una trama difficile da sbrogliare anche per i benintenzionati, una manna per temporeggiatori e mestatori, che hanno gioco facile nel rimpallare le responsabilità. Al termine di questa matassa si coglie comunque un nucleo centrale, quello della globalizzazione ingovernata, sregolata. In questa globalizzazione, un salmone pescato in Scozia può prendere un aereo per andare ad affumicarsi a basso costo in Thailandia, per poi prenderne un altro e tornare in Scozia per il confezionamento. La stessa globalizzazione che consente a ogni mucca europea di godere di due dollari al giorno di sussidi pubblici, cifra cui non arriva il reddito di circa metà della popolazione mondiale. Beni di lusso e alimenti di base, quote latte e salmoni volanti, tutti a bordo della globalizzazione iperliberista.
Eppure, se si prova a mettere un po’ d’ordine, si scopre che nell’estendersi della fame esistono alcuni punti fermi, a volte persino condivisi fra paesi ricchi ed emergenti da un lato e paesi poveri ed Ong dall’altro.
- modello produttivo agricoltura: oggi il sistema dominante è quello iperliberista, che ha diffuso monocolture intensive da esportazione nei paesi in via di sviluppo, a scapito dei piccoli agricoltori locali. Ci guadagnano, e bene, le grandi multinazionali dei cereali (Cargill, Bunge, ecc.), i produttori di sementi e fertilizzanti (Monsanto, Bayer, Basf e altri) e le grandi catene di distribuzione (Wal-Mart, Auchan), che incidono fortemente sugli alti prezzi finali. Ci perdono coltivatori e popolazioni di quei paesi, gli stessi che oggi sopportano le conseguenze della fame, non avendo più la possibilità di coltivare le proprie terre, con cui potrebbero generare cicli di produzione e consumo locali di gran lunga più efficienti.
- speculazione finanziaria: il mercato agroalimentare sta subendo una forte finaziarizzazione, dovuta in parte proprio a questa sorta di cartello di corporations di cui sopra. La prevedibilità – al rialzo – dei prezzi dei cibi ha alimentato negli ultimi anni, e ancor più negli ultimi mesi, forti investimenti privati nelle borse mondiali, in vista del sicuro ritorno finanziario di obbligazioni e azioni legate ai mercati agroalimentari.
- biocarburanti: i nuovi terreni per la coltivazione delle biomasse sostituiscono campi utilizzabili per scopi alimentari. Le benzine pulite diventano così un concorrente del cibo.
- aumento della domanda: esiste un effettivo aumento della domanda degli alimenti di prima necessità nei paesi emergenti come Cina e India. Mentre ampie fasce di popolazione superano la soglia di povertà, in altri paesi la miseria si approfondisce.
- aumento prezzi petrolio e fertilizzanti: la crisi energetica, e soprattutto l’aumento del prezzo del barile di greggio, risultano in un aumento dei costi di trasporto delle merci alimentari e degli stessi fertilizzanti usati in agricoltura.
- disastri ambientali: inondazioni, siccità e fenomeni di desertificazione influiscono su abbondanza e qualità dei raccolti, collegando la crisi alimentare alle questioni del riscaldamento globale.
Naturalmente queste concause non hanno lo stesso peso e riconducono a responsabilità differenti. Si sente dire, talvolta, che la popolazione mondiale è cresciuta al punto che non c’è più cibo a sufficienza per tutti. Oppure che le cause ambientali siano preponderanti. Sono leggende: attualmente il problema vero sono i prezzi e il fatto che questi siano tenuti alti in maniera artificiosa. Mettere ordine tra i vari fattori e spazzare via le narrazioni di comodo è il primo passo per un’azione incisiva.
E’ proprio la complessità di questo compito che ha reso scettici gli osservatori del vertice Fao conclusosi ieri a Roma. Intorno agli stessi tavoli si sono radunati capi di stato, tecnici e delegati di ogni provenienza, attivisti delle Ong e rappresentanti delle multinazionali cerealicole o della chimica. A complicare il quadro degli interessi in gioco le sparpagliate origini geografiche dei partecipanti, ciascuno con i propri problemi e le proprie soluzioni.
La questione dei biocarburanti, per esempio, ha visto schierate le Ong contro Stati Uniti, Brasile ed Europa. Lula stesso ha preferito riportare l’attenzione sull’aumento del prezzo del petrolio, additandolo come una delle fondamentali cause del rincaro dei cibi, per almeno il 30% in Brasile.
Discorso Ogm: l’Europa ha avuto finora l’atteggiamento più cauto in materia di agricoltura transgenica, ma sta progressivamente aprendo le porte alla ricerca scientifica, mentre gli Stati Uniti già ne promuovono il commercio. In alcuni paesi asiatici se ne fa un uso importante (è il caso della soia), con risultati produttivi incoraggianti. Restano contrarie Ong e diversi paesi in via di sviluppo, o nazioni come la Francia, preoccupate per le ignote ricadute sulla salute a lungo termine e per l’ulteriore rafforzamento della stretta delle multinazionali della chimica sul mercato del cibo.
Ancora più intricata la questione della liberalizzazione dei commerci.
Il risultato delle innumerevoli controversie sta nell’asfittico documento di sintesi del vertice, esito esangue e formale di una politica di veti incrociati praticata con poche distinzioni. Nessun accenno agli Ogm, un generico rinvio sui biocarburanti in attesa di studi, un incoraggiamento alla politica di liberalizzazioni, insieme a un retorico monito contro chi sfrutta la fame come arma di ricatto politico. E il solito elenco delle cifre, tutte da confermare, donate a contrasto dell’emergenza.
Tutti accontentati, nessuno soddisfatto. E’ lo stallo del mondo multipolare, che solo in apparenza segna un pareggio, perché anche l’inerzia determina vincitori e vinti. Ripercorrendo gli attori di questa storia è facile capire chi è avvantaggiato dalla conservazione delle cose. Gli stessi che sotterraneamente lavorano perché domani divengano inevitabili le proprie soluzioni. In una globalizzazione senza governo, il multilateralismo della buona volontà è destinato a non fare strada.
5 Giugno 2008 - Scrivi un commento