Studiare gli errori dovrebbe aiutare a non commetterli ulteriormente. Studiare la storia dovrebbe aiutarci, come una palestra, ad una certa dinamicità mentale. Studiare la storia, poi, ci aiuta a capire che molto probabilmente le strade che il progresso pavimenta verso il futuro da un lato sono drammaticamente destinate al disastro, dall’altro non portano mai a qualcosa di veramente nuovo.
Spesso, in quelle tradizioni ancestrali, millenarie e sepolte dal tempo e, ahinoi, dal progresso, c’è la spiegazione palese e quasi disarmante del nostro presente.
Nella mitologia dei Baniwas, degli Yanomami e dei Desana, popolazioni indigene che vivono nel nordest dello Stato brasiliano di Amazonas, al confine con la Colombia ed il Venezuela, si possono rintracciare spiegazioni ed avvertimenti sul cambiamento climatico.
Si tratta di un fenomeno per nulla inedito nella storia dell’umanità ed ha avuto inizio quando si è creata quella frattura insanabile tra gli esseri umani, la natura e gli animali.
Il mito della creazione, che per gli Yanomami si riferisce anche alla fine del mondo, fa proprio riferimento alla “caduta del cielo”, un fenomeno speculare al biblico diluvio universale in cui gli esseri umani, sommersi dall’acqua, si trovano a guerreggiare con esseri magici. Un evento che potrebbe verificarsi, sempre secondo gli Yanomami ed i Baniwa, se l’umanità non inverte l’attuale processo di distruzione.
In quella che Juan Carlos Ochoa Abaurre (Uned Navarra) chiama la “cataclismologia del mito della creazione e della distruzione del mondo” che caratterizza la mitologia delle popolazioni indigene si estrinseca un sentimento uniforme di annichilimento della terra in tempi remoti e la sua futura ripetizione. La rappresentazione è la più varia e va dalla già citata inondazione, all’incendio (popola Nandevas), all’attacco mosso da mostri (popolo Kayová), oppure all’improvvisa caduta della terra nel buio (Apápokuva).
Secondo José Maria Lana, un abitante dell’Alto Rio Negro, rappresentante del popolo Desana ed esponente dell’attuale direzione della Federación de las Organizaciones Indígenas del Río Negro (Foirn), gli avvertimenti del mito (o dei miti) sono già percepibili. Ad esempio, nell’intensità del calore solare, nel cambiamento del periodo di infiorescenza, nello spostamento dei periodi delle piogge. Non si tratta, per la verità, di episodi fini a se stessi, poiché la loro alterazione influisce fortemente sulla riproduzione degli animali, sulla maturazione dei vegetali e di conseguenza anche sui cicli alimentari delle popolazioni della foresta e sui loro riti tradizionali.David Yanomami, sciamano più volte premiato per il suo impegno a fianco delle popolazioni indigene, ritiene l’uomo bianco e le sue azioni i fattori principali del declino. La contaminazione dell’aria e dei terreni provocata dalle industrie, dalle bombe, dalla combustione del petrolio e anche dal veleno invisibile che sale dal profondo della terra a causa delle attività estrattive, lastricano la strada verso l’irreparabile e generano malattie sconosciute che gli stessi sciamani non sono in grado di curare (se l’uomo bianco non porrà fine alla perversa distruzione della nostra Madre Terra, esso è destinato all’estinzione, come la foresta pluviale e gli Yanomami).
Si tratta di un colpo molto duro inferto all’identità tradizionale delle popolazioni indigene. Lo sciamano non è solo una sorta di mago; è di più, un punto di riferimento, un medico, la persona cui rivolgersi in caso di difficoltà. E quando anche questa figura diventa impotente davanti ai nuovi morbi impossibili da sconfiggere ricorrendo alla medicina tradizionale, è lì che inizia ad erodersi la solidità di popolazioni che hanno fatto del loro stretto ed intrinseco legame con la natura la radice su cui innestare la loro intera esistenza.
La schizofrenia dei cicli climatici altera i ritmi dell’agricoltura, il surriscaldamento globale scioglie i ghiacciai e rimescola la fauna marina, i prodotti di sintesi e la chimica alterano i sapori, gli odori, i colori e intanto l’uomo bianco di David Yanomami è fiero di ingurgitare cibo plastificato, possedere più di quando gli sia effettivamente necessario, accumulare montagne di cose che presto si trasformano in montagne di rifiuti.
È contento del progresso, l’uomo bianco, perché glielo spacciano per futuro senza interrogarsi che cosa sia quella strana schiuma che lo circonda mentre fa un bagno a mare; quel fumo compatto che gli entra nei polmoni e lo ammazza a sua insaputa; quella pioggia così putrida che gli insozza la macchina appena lavata. L’uomo bianco è buffo, se la prende con la marea che ha distrutto la casa e non con il costruttore abusivo che l’ha eretta sulla costa; se la prende con la frana e non con quelli che disboscano selvaggiamente; se la prende con gli elefanti, con gli orsi, con le volpi che si aggirano in cerca di cibo nei centri abitati e nei villaggi e non con quelli che pezzo a pezzo hanno invaso il loro habitat naturale, privandoli delle loro fonti di sostentamento.
L’uomo bianco è buffo perché si sta suicidando e, semplicemente, non lo sa.
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