Quel tragico avvenimento segna la fine del trentennio della “soluzione finale” – come la chiama Dee Brown nel suo celeberrimo libro intitolato proprio Seppellite il mio cuore a Wounded Knee –, ovvero quelle tre decadi in cui la pratica del colonialismo interno tanto cara alla dottrina Monroe venne applicata con più abnegazione e intransigenza, nel nome di quel destino manifesto che ancora oggi gli Stati Uniti utilizzano, seppur con diverse forme di propaganda, come scusa per espandere i loro interessi nel mondo.
Se i coloni del diciannovesimo secolo erano animati da una sorta di arrogante senso di superiorità – derivante un po’ dal retroterra rigidamente puritano da cui provenivano, un po’ da un presunto primato culturale e spirituale rispetto ai nativi –, oggi l’eccezionalismo americano è un mero pretesto che cela mire economiche e geopolitiche.
Tralasciando in questa sede le implicazioni più recenti, vorrei concentrarmi brevemente su quel funesto trentennio durante il quale non solo due popoli si contesero con le armi una grande terra, ma si scontrarono e confrontarono due civiltà dalle anime totalmente antitetiche.
Una delle differenze che maggiormente demarcano questa opposizione è proprio il radicamento verso la Terra e il rapporto con essa. I coloni americani, già deterritorializzati in quanto calati in un contesto che non apparteneva a loro e animati da una ferma volontà di rottura con il proprio paese d’origine, avevano un approccio decisamente materialista verso il suolo che hanno mangiato ai nativi nei corso dei quattro secoli di colonizzazione: per loro l’unica cosa che contava erano gli acri di campi, le miglia di piste e il numero e le dimensioni delle città che venivano costruite. Nulla era la considerazione per chi abitava quel luogo prima di loro, esseri senzienti o meno.
Il concetto di limite, collegato a quello di necessità, era fondamentale per i nativi. Non si abusava mai di quello che la Terra offriva e veniva consumato solo ciò che era strettamente necessario alla sopravvivenza. I bisonti abbattuti venivano sfruttati in ogni loro parte – la carne per l’alimentazione, la pelle per riscaldarsi, le corna e le ossa per costruire utensili – e all’uccisione seguiva una particolare cerimonia animata dai sentimenti di rammarico per la morte dell’animale e di gratitudine per il sostentamento che esso offriva. La caccia in generale era caratterizzata da una forte ritualizzazione e anche dal punto di vista biologico si inseriva in un ciclo naturale perfettamente equilibrato.
Il concetto di preservazione, opposto allo spreco, era applicato anche agli uomini: i conflitti fra le diverse tribù avvenivano spesso ma non erano quasi mai cruenti e mortali; durante la lotta si usava “contare i colpi” – ovvero avvicinarsi il più possibile e colpire – anziché abbattere l’avversario, sia per dimostrare valore in battaglia – l’avvicinamento e la messa a segno del colpo ravvicinato erano molto più difficili dell’assestamento di un colpo, pur mortale, da grande distanza – sia per fare sì che scaramucce dovute a questioni in fin dei conti secondarie non causassero morti inutili, gravando sulle forze della tribù.
Questa ritualità fu ovviamente abbandonata nel corso delle guerre combattute con i bianchi, i quali non conoscevano affatto il valore e l’etica guerriera che era invece fondamentale per i nativi. Ciononostante, furono diverse le battaglie che gli indiani vinsero, grazie a un’abilità in combattimento e a una conoscenza del territorio che sopperivano all’inferiorità dal punto di vista delle armi e degli equipaggiamenti. La più celebre è certamente la battaglia di Little Big Horn, in occasione della quale i Lakota inflissero una storica sconfitta all’esercito americano guidato dal tenente colonnello Custer, che seguì di pochi giorni un’altra grave disfatta riportata dalle truppe del generale Crook sul fiume Rosebud.
L’artefice di quella grande vittoria fu Cavallo Pazzo, grande condottiero dei Lakota Oglala e ultimo capo, insieme a Toro Seduto, a preferire la libertà e rifiutare incondizionatamente il confino nelle riserve.
Qualche giorno fa è stata inaugurata in South Dakota la statua più grande del mondo. La sua realizzazione – ancora incompiuta – è curata dallo scultore Korczak Ziolkowski (deceduto alcuni anni fa) e dalla sua famiglia e raffigura proprio Crazy Horse. Ruth, moglie di Korczak, ha rifiutato diverse volte un contributo statale di circa 10 milioni di dollari per il compimento dell’opera, nonostante per il suo completamento ci sia bisogno di oltre 16 milioni. Non ha potuto accettare soldi da chi, poco più di un secolo fa, ha compiuto uno dei più grandi genocidi della storia nel bel mezzo della “terra delle opportunità”, che ha comprato nel corso degli anni con sangue e oro. Nonostante rifiutando quel contributo Ruth Ziolkowski abbia probabilmente rinunciato alla sola possibilità di portare a termine il lavoro del marito, probabilmente ha fatto la scelta giusta. D’altra parte, come disse proprio Cavallo Pazzo, «non si vende la Terra sulla quale la gente cammina».
Cavallo Pazzo
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Guido