Secondo il teorico dell’Ipotesi Gaia James Lovelock, infatti, questo materiale simile, alla carbonella del barbecue, è la sola speranza contro le catastrofi causate dal cambiamento climatico. Ma andiamo con ordine.
La carbonizzazione dei residui organici in biochar viene attualmente testata in centri di ricerca scientifica in Australia, Stati Uniti, Germania e Italia. Questa tecnica, però, ha origini antiche. Si basa su una tecnica agricola che viene praticata da migliaia di anni nelle terre brasiliane.
Non è un caso, quindi, se alcuni terreni dell’Amazzonia si sono rivelati fino a 70 volte più ricchi di biochar dei terreni circostanti. Questo materiale carbonioso è stato prodotto dalla combustione incompleta di parti vegetali “introdotte volontariamente nel terreno dalle popolazioni locali”, spiega il dottor Franco Miglietta, dell’Istituto di biometeorologia di Firenze.
>Ottenere il biochar, però, non è così semplice: la decomposizione termochimica dei residui organici – chiamata pirolisi - necessita di una lenta combustione in assenza di ossigeno a più di 300 gradi.
I vantaggi del materiale comunque sono notevoli. Gli studi svolti in Toscana dall’apposito progetto dell’Ibimet Italian Biochar Initiative, rivelano che aggiungendo 10 tonnellate di biochar ad un ettaro di terreno si sottraggono all’atmosfera 30 tonnellate di CO2.
Oltre al carbonio, la Terra Nera trattiene sostanze nutritive, e - essendo porosa - attira vermi: per questo gli indios la utilizzavano come fertilizzante. Secondo recenti studi dell’università di Bayreuth il biochar può raddoppiare la crescita di piante su terreno non fertile.
I gas liberati durante la carbonizzazione dei residui organici permettono di generare energia, ma solo un terzo di quella che si otterrebbe bruciandoli in modo convenzionale. In cambio il biochar cattura la metà del carbonio contenuto nella biomassa.
Data la semore crescente richiesta di energia, però, vi è purtroppo generalmente più interesse per l’incremento della produzione energetica che per la ritenzione di CO2. Pochi sono dunque pronti a investire nel biochar, eppure il suo sfruttamento necessita ancora di ricerca, soprattutto per ridurre i costi delle tecnologie necessarie per la combustione.
Nonostante queste difficoltà, sono già stati sviluppati parecchi “forni biochar”, soprattutto per paesi in via di sviluppo: il Belize e alcuni stati africani, ad esempio, chiedono che il loro utilizzo venga accettato come misura contro i cambiamenti climatici per il protocollo “post-Kyoto”, che verrà firmato a Copenhagen a dicembre.
Insomma, tra le tante proposte iper-tecnologiche e futuristiche, forse quella basata su un’antica terra nera potrebbe rivelarsi tra le più sensate.
29 Marzo 2009 - Scrivi un commento
complimenti per il rilievo che gli date. Ho seguito la storia della luciastove, in effetti può dare un valido contributo nei paesi sottosviluppati. Ma che dire di noi?
Avremo mai accesso a una simile tecnologia casa per casa?
esiste in rete uno schema della piccola stufa che ho visto nella foto?
saluti. Angelo