Un patrimonio dell’ambientalismo globale, per il potere di assorbimento del carbonio, per una biodiversità ineguagliata e ancora misteriosa e per le popolazioni indigene che la abitano, ma anche una riserva di spazio coltivabile vergine e un forziere di ogni genere di tesoro rivendibile sui mercati, dal legname, ai medicinali naturali, a svariati minerali.
“Difficoltà riscontrate nell’attuazione della concordata politica ambientale, […] dovute a resistenze crescenti di importanti settori del governo e della società”, sono descritte nella lettera ufficiale di dimissioni.
Il Brasile si trova sull’orlo del boom. Un gigante che è rimasto addormentato per tutto il secolo scorso, fra dittature militari, difficoltà politiche e corruzione diffusa, nonostante un territorio ricco di risorse e lavoratori. Ora la nazione si trova in rampa di lancio e, dopo i colossi cinese e indiano, sembra l’economia più promettente. Le esportazioni di caffé, carne, arance, zucchero, ferro e cereali fanno sorridere i brasiliani. E lo “sceicco” Lula, come è stato recentemente soprannominato dopo che la Petrobras ha scoperto in mare una serie di colossali giacimenti petroliferi, ha tutta l’intenzione di non deluderli.
In questo clima di ottimismo e sviluppo inediti, è rimasta isolata la ministra Marina Silva. Ambientalista di lungo corso, ex compagna di lotte di Chico Mendes e donna indipendente, che si era pagata l’università lavorando come cameriera, Silva era ritenuta in ambito internazionale la garanzia della serietà della politica ambientale brasiliana. Perdendo lei – oltre a due altri importanti dirigenti ambientalisti – il governo Lula vede minato il suo tentativo di affermare il Brasile come uno dei paesi guida nella riconversione globale allo sviluppo sostenibile.
Ultimamente la ministra aveva perso diverse battaglie, come quella per la costruzione di due nuove dighe per l’energia idroelettrica all’interno della foresta, o quella per la realizzazione di una nuova strada di collegamento fra il Rio delle Amazzoni e le piantagioni di grano occidentali. Anche la sua lotta contro il disboscamento illegale ha scontentato molti sostenitori del neonato sviluppismo brasiliano. Là dove nemmeno la retorica ecologista di Lula ha detto una parola di chiarezza, era rimasta solo Silva a contrastare l’allargamento di una zona grigia devota alla crescita a ogni costo.
Ma degli intrecci tra affari e ambiente che si consumano all’ombra di liane e rampicanti dà il senso un’altra recente notizia. Gli stranieri – turisti e operatori delle Ong – non potranno più entrare liberamente nella foresta pluviale, ma dovranno fare domanda presso le autorità, seguendo una complicata procedura burocratica. L’iniziativa è stata presa dal governo brasiliano con l’intento di impedire il trafugamento di piante e segreti medicinali custoditi dalla foresta, a favore delle multinazionali straniere della medicina naturale. Un fenomeno le cui dimensioni sono incerte e discusse, ma che da sempre preoccupa i brasiliani. 40.000 euro la multa per chi entra nella foresta senza permesso, mentre la sorveglianza dovrebbe essere garantita dai nuovi sistemi satellitari.
All’iniziativa si sono opposte le Ong, fra cui Greenpeace, per le quali la vera finalità della manovra è di tenere fuori osservatori e ambientalisti stranieri, perché non possano conoscere modi, tempi e luoghi del disboscamento che avanza. Le organizzazioni chiamano in causa il governo stesso, che avrebbe deciso di chiudere un occhio nei confronti di recenti avanzamenti illegali di taglialegna e agricoltori nella foresta. Un’accusa pesante, che oggi Lula dovrà affrontare da solo.
14 Maggio 2008 - Scrivi un commento