Facciamo un po’ di storia: 1969, Stanley Kubrik gira 2001, Odissea nello spazio, un capolavoro abbagliante che entra immediatamente nella storia del cinema. Tre anni dopo Douglas Trumbull, che in quel film aveva collaborato alla realizzazione degli effetti speciali, gira Silent running, un’operina ben fatta, ma senza grandi impennate stilistiche che sembra meritare appena una citazione nelle varie storie del cinema uscite nel frattempo.
Eppure Silent running ha una grandezza che al capolavoro di Kubrik manca, la grandezza di uno sguardo attento e accorato, chinato sul presente. E che sguardo! Sono passati 40 anni, gli attori che lo hanno interpretato sono degli anziani pensionati, Trumbull non so cosa faccia e quel presente si è amplificato fino a spalancarsi oggi in tutta la drammaticità che la sua “operina minore” prefigurava. Se è vero che l’immenso respiro cosmico dell’opera di Kubrik ha una valenza letteralmente universale che la pone al di fuori e al di sopra della Storia, e che ci obbliga a confrontarci con la giusta misura dell’uomo, quale solo in rapporto allo spazio e al tempo profondi si può percepire, l’opera di Trumbull al contrario, pur svolgendosi interamente nelle più remote regioni del sistema solare, è concentrata sulla Storia, su una fase cruciale di essa, su un istante, quello in cui si sceglie fra il giardino e il deserto.
Una scelta che contiene in sé la tragicità dei passi irreversibili, una scelta che è per sempre. Essere un giardiniere, ci dice il compositore (e giardiniere) Walter Branchi, significa aver cura, aver cura di quel pezzetto di mondo che ci circonda. Ecco, Silent running è un film su questo obbligo morale dell’uomo, sul suo venir meno. Narriamolo.
E’ a bordo di una di queste astronavi che ci troviamo; quattro uomini la pilotano. Uno di essi, il botanico Freeman Lowell, vive in simbiosi con le piante e gli animali ospitati nelle cupole. Dei rimanenti tre è meglio tacere. Guardatevi intorno, nelle strade di una qualsiasi città, cercateli fra i giovani che ciondolano per ore con l’espressione inebetita davanti all’ingresso di un Mc Donalds o di una discoteca, dopo giornate trascorse ad assorbire valanghe di televisione spazzatura e videogiochi necrofili, convinti che quell’orgia di vuoto plastificato sia il migliore dei mondi possibili. E’ lì, in questo presente, che li troverete.
Ciò che per Lowell è «cibo vero» per gli altri membri dell’equipaggio è «quella roba che tiri fuori dalla terra sporca», mentre l’unico cibo degno di questo nome è quello dall’aspetto e dal sapore standardizzato che viene fuori automaticamente dalle macchine dell’astronave. Non dobbiamo fare un gran volo di fantasia per immaginarcelo, non è altro che il cibo preconfezionato, precotto, precolorato, preconservato che ben conosciamo dai banconi dalla “grande distribuzione” i quali sono già adesso l’unica fonte alimentare che il cosiddetto “uomo medio” è in grado di concepire.
Quando dalla Terra giunge l’ordine di abbandonare il progetto, distruggere le cupole con il loro carico di vita e far tornare le astronavi al traffico commerciale, Lowell rifiuta di obbedire, anche se per far ciò è costretto a ricorrere a mezzi estremi, ovvero uccidere gli altri membri dell’equipaggio e dirottare l’astronave, con l’unica cupola superstite, su un’orbita ancora più esterna. Il suo tentativo fallisce.
Quando viene rintracciato, fa esplodere l’astronave e se stesso dopo aver sganciato la cupola e affidato la cura delle piante e degli animali a un piccolo automa. E’ questa l’ultima immagine, che unisce desolazione e struggente speranza: l’unica superstite isola di vita della Terra, sperduta nello spazio e sempre più piccola e lontana, in attesa di un improbabile ritorno.
Non sappiamo quando iniziò, ma sappiamo che nell’età del bronzo la pianura padana era ancora un’unica foresta. Oggi non ne rimane nulla. Le foreste, gli ecosistemi, le comunità viventi sono circoscritte, imprigionate nelle cosiddette riserve naturali, già in sé un’aberrazione perché presuppongono che lo stato di una condizione naturale sana sia un’eccezione quando dovrebbe essere la norma. E perfino tali aree si comincia a metterle in discussione; comincia a farsi strada l’idea che forse sono troppe, che in fondo si possono “riperimetrare”, cioè restringere.
Conosco una scuola della Brianza in cui esisteva fino a poco tempo fa un suggestivo stagno circondato da una folta vegetazione palustre. Fu lasciato per anni in penoso abbandono, infine fu interrato e la vegetazione rasa al suolo. Quando si comincia a pensare che uno stagno può essere prosciugato, che un albero può essere abbattuto, che un animale può essere ucciso, le porte del deserto sono già spalancate. Per questo dico che Silent running parla del presente.
Scegliere un Film 2009
Come i cinque precedenti volumi (2004, 2005, 2006, 2007 e 2008) di successo, scegliere un film 2009 è uno... Continua... |