È il 10 luglio 1976, circa mezzogiorno, e ci troviamo a Meda, cittadina brianzola a pochi chilometri da Milano. Il reattore B di uno stabilimento della ICMESA, industria chimica che produce composti per cosmetici e sterilizzanti – ma che una successiva inchiesta del settimanale Avvenimenti ipotizzò produttrice di diossina per armi chimiche statunitensi – si surriscalda improvvisamente generando la fuoriuscita di una nube tossica con elevata concentrazione di diossina Tcdd (il tipo più pericoloso). Il vento, una brezza leggera verso sud, trasporta la nube nei dintorni colpendo soprattutto il vicino comune di Seveso.
Gli effetti sulla popolazione sono quasi immediati: le prime avvisaglie sono un intenso odore di zolfo e il bruciore agli occhi, ma già dal giorno successivo si verificano i primi casi di intossicazione e di cloracne, violenta irritazione cutanea. Col passare dei giorni aumentano i casi di aborti spontanei, mentre centinaia di animali domestici muoiono fra atroci sofferenze. Destino ancor peggiore per gli animali da fattoria: in molti muoiono naturalmente ed i restanti, circa 70 mila, vengono macellati per impedire alla diossina di inserirsi nella catena alimentare. E poi alberi e piante essiccate ed intere coltivazioni da buttare. Si delinea lo scenario di un disastro ambientale senza precedenti in Italia.
In quella occasione le istituzioni, colpevoli di aver fatto trascorrere ben sedici giorni prima di far evacuare la zona, si affrettarono ad assicurare che non era successo niente di grave e che l'esposizione ai 400/500 grammi di diossina dispersisi nell'ambiente non avrebbe avuto effetti a lungo termine. Molti apparati di stato e autorità locali cercarono di diffondere sui media tale tesi, che fu avvallata persino dalla celebre rivista scientifica “The Lancet”.
Un'ulteriore conferma dell'alta pericolosità della diossina che in molte delle sue varianti si presenta come un agente carcinogeno accertato e riconosciuto (la Tcdd in particolar modo è classificata dall'OMS come carcinogeno di classe uno). E’ un campanello d'allarme per tutti noi. Infatti la diossina non si sprigiona nell'aria solo in seguito ad incidenti e disastri: se così fosse potremmo rallegrarci delle misure di sicurezza europee sugli apparati industriali di tipo chimico entrate in vigore nel 1982 e inserire la disgrazia di Seveso nell'album dei ricordi tragici della nostra nazione.
Ma la realtà è ben diversa. Proprio noi italiani siamo i maggiori produttori europei di diossine. L'unico rapporto della UE a riguardo, datato 1999, dice che ne produciamo il 38 per cento in più della Spagna, il 31 in più della Gran Bretagna, il 29 della Germania e ben il 75 per cento in più di Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia messe insieme. Industrie, inceneritori, discariche, disperdono ogni anno sul nostro territorio dai 500 ai 1000 grammi di diossina – due Seveso all'anno, per intenderci – che si vanno a depositare sulle piante, si infiltrano nelle falde acquifere, inquinano e intossicano i cibi che mangiamo.
E allora è il caso di togliere la tragedia di Seveso dall'album dei ricordi e appenderla al muro in bella vista, perché faccia da monito a tutti noi e ad una società che troppo spesso, in nome dell'utile immediato, si scorda delle conseguenze a lungo termine delle proprie azioni.
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