Si intitola “Crude”, cioè greggio, come il petrolio che per vent’anni – dal 1972 al 1992 – il gigante petrolifero statunitense Texaco (acquisito dalla Chevron nel 2001) ha estratto dall’Amazzonia ecuadoriana, lasciando un’eredità di distruzione, contaminazione, malattia, morte. Non a caso un’ampia area del Sucumbios (nel nord-est dell’Ecuador) è stata da tempo soprannominata “zona morta” e in tanti si riferiscono all’intera vicenda come al “caso della Chernobyl amazzonica”.
Nonostante non sia più in atto alcuna estrazione petrolifera, una regione avente una superficie di circa 4000 km2 (di cui 17 di foresta pluviale) è stata ormai indelebilmente segnata: i terreni sono inquinati, i corsi d’acqua contaminati, le tribù indigene sono state costrette a modificare radicalmente il loro tradizionale stile di vita. L’incidenza di gravissime malattie quali tumori, malformazioni congenite, leucemia, morbi della pelle, è elevatissima in questa regione in cui tanta gente vive letteralmente su pozzi petroliferi dismessi o fosse di scarico e bevendo acqua che puzza di benzina.
Da oltre dieci anni in 30000, tra indigeni e abitanti di origine coloniale delle foreste pluviali, chiedono attraverso il tribunale un risarcimento danni al colosso americano, Texaco prima, Chevron ora. A portare avanti la causa è un gruppo di avvocati ecuadoriani e statunitensi, contro altrettanti legali assoldati dalla compagnia petrolifera.
Pur essendo un film denuncia, “Crude” non prende apertamente le parti degli indigeni e degli ecuadoriani in lotta, bensì cerca di raccontare la vicenda nel modo più completo possibile, scendendo nelle pieghe, indagando i vari aspetti e dando spazio a tutte le voci. A parlare è la gente che vive nella regione e che popola la foresta, gli avvocati della parte lesa, ma anche i legali e gli esperti al servizio di Chevron, le organizzazioni umanitarie, politici del luogo e persino celebrità coinvolte in iniziative di attivismo (come Sting e la moglie Trudy Styler, i quali hanno creato una fondazione per la difesa della foresta pluviale).
“Ogni parte in causa ha diritto di parola”, ha dichiarato il regista Joe Berlinger, “voglio che la gente possa giudicare da sé”. La prospettiva degli ecuadoriani fa comunque la parte da leone nell’arco dei 105 minuti di film. E ci risulta facile comprenderlo.
Il Governo ecuadoriano ha senza dubbio in passato tratto i suoi vantaggi dalla concessione degli appalti per l’estrazione del petrolio e potrebbe anche essere vero che al momento dell’abbandono del suolo, avvenuto nel 1992, la Texaco abbia ceduto le responsabilità alla compagnia locale sua partner, la Petroecuador, liquidando la vicenda con un lascito di 40 milioni di dollari (a detta della Chevron). Questo però non assolve il colosso petrolifero dalle sue responsabilità per l’ingente danno ambientale e umano creato in una delle regioni del mondo più ricche per biodiversità (si contano alcune migliaia di specie animali e vegetali) e varietà culturale “incontaminata” – almeno fino a qualche decennio fa – (vi dimorano ben cinque differenti tribù indigene).
Le tribù locali, per secoli vissute in armonia con l’ecosistema, ora non si nutrono più del pesce che cresce nei corsi d’acqua, alcune aree sono state abbandonate e i malati di cancro, le nascite anomale, gli aborti spontanei aumentano angosciando le esistenze degli ecuadoriani.
Il film, pur raccontando la storia di una battaglia legale, non è per nulla ambientato nelle aule dei tribunali, bensì direttamente nella giungla, nelle regioni contaminate, sui fiumi, tra la gente del posto. Anche le ispezioni da parte di avvocati ed esperti, le udienze presso il giudice, hanno luogo nel cuore della foresta amazzonica.
“Dal punto di vista creativo, quei luoghi sono fantastici, ma fisicamente ci hanno messi molto alla prova”, ha affermato Berlinger al termine delle riprese. Lui e gli altri membri della troupe (solo due!) hanno sopportato per giorni una temperatura di 50°C e vissuto in regioni malariche in compagnia del sempre-presente odore di benzina. Hanno cioè visto da vicino e sperimentato quale sia la vita di coloro che popolano quelle zone.
Le riprese si sono distribuite nell’arco di tre anni, pertanto hanno comportato numerose trasferte in Ecuador e a volte lunghe permanenze sul luogo.
“Crude”, presentato in anteprima al Sundance Film Festival lo scorso gennaio, è stato definito dai critici un’interessante via di mezzo tra il documentario e il dramma a sfondo legale, un amalgama di politica internazionale, procedimenti legali e attivismo da parte della società civile. “Una storia affascinante e importante, uno straordinario lavoro di fusione tra giornalismo e arte”, ha commentato Christiane Amanpour, corrispondente della CNN.
Da vedere e pubblicizzare, quando sarà possibile anche in Italia.
Intanto la battaglia legale in Ecuador non è ancora giunta a termine. Se Chevron perderà, probabilmente dovrà sborsare tra i 5 e i 12 miliardi di euro di risarcimento al popolo ecuadoriano del Sucumbios. Ce lo auguriamo.
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