Personalmente non ho mai desiderato essere un buon giornalista obiettivo, di quelli che si limitano a riportare i fatti come se fosse la nota della spesa.
Quelle che seguono sono le riflessioni e la cronaca di esperienze che la vita mi ha portato ad affrontare, senza che ci fosse un mio intervento di selezione, scelta o anche di semplice indirizzo.
Sono riflessioni di chi, improvvisamente, si è trovato proiettato in India, a Bombay (Mumbai), tra le baraccopoli, gli slum, i sorrisi e la gioia dei bambini, le meravigliose vesti tradizionali indi, lo sviluppo economico impetuoso, la ricchezza prorompente e la povertà debordante e poi, altrettanto improvvisamente, si è ritrovato in patria, in un paesino della Ligura, di fronte alla inconcepibile morte di una persona amata, una persona “anziana”, un fondamento della propria esistenza.
E qui il dubbio di chi scrive: virare queste righe sull’amato scomparso, con una serie di riflessioni sul rapporto tra generazioni, sulla vita e sulla morte o puntare all’esperienza indiana, allo scontro fra tradizione e modernità, alla desolante bellezza della prima e alla traboccante decadenza della seconda?
Qui, in Italia, mio nonno, mio nonno Lucio, “è volato in cielo”. Morte e vita si sono quindi drammaticamente incontrate e tra esse occhieggia l’inguaribile allegria che ha sempre caratterizzato la vita di mio nonno, il suo amore – quasi un’ossessione – per la risata, per le barzellette, per i colori, il buon umore, il sorriso. Risuonano in me le sue grida di gioia, la sua energia, le sue risate, la sua esultanza di fronte a una buona notizia. E, allo stesso tempo, rimbomba in me l’assordante silenzio della sua scomparsa, il vuoto, immenso, infinito, incolmabile che si allarga dentro.
Là, in India, a Bombay, morte e vita si intrecciano costantemente, tanto da far sembrare più normale la prima e più incredibile la seconda. Lo spazio, laggiù, assume un’altra dimensione. Il concetto di privacy, in una città in cui anche le rotatorie sono abitate da decine di persone, è semplicemente ridicolo. Ovunque morte, malattia, fame. Ovunque nascita, bambini, risate. Ebbene sì, risate. Anche qui, in mezzo al fango, alle fogne a cielo aperto, ai ponti squallidi delle stazioni, riecheggiano le risate di bambini deliziati dalla minima sorpresa.
Arriviamo noi, con le telecamere; “pallidi” occidentali venuti a “documentare” queste realtà. Quanto è difficile non disprezzarsi, non scappare a gambe levate, mentre si cammina tra loro reggendo attrezzature che costano come la vita di decine di bimbi locali. Ma poi, giri il display, loro si vedono rispecchiati in esso, ti sorridono beati, cominciano a saltare di fronte all’obiettivo e senti la gioia, incredibile ma vero. Ti guardano, franchi, diretti. “Come ti chiami”? Ripetono il tuo nome storpiandolo. Lo trovano molto comico. Tu ridi con loro. Stai bene. Dimentichi morte, decadenza e squallore. Finché non alzi nuovamente lo sguardo.
Quella risata è la stessa risata di mio nonno. È una risata che si oppone allo squallore che la vita ci propone, una risata che squarcia il velo delle fogne a cielo aperto indiane o del cemento e del cinismo ed egoismo a cielo aperto occidentale. Una risata che ti riconcilia con la vita proprio laddove questa sembra arrendersi alla morte.
Mio nonno amava dissacrare. Eppure aveva un’eleganza e una classe di un tempo che oggi non esiste più. Impossibile descriverlo. Orribile ricondurlo al concetto precostituito di “nonno”. Molti di voi staranno pensando ai loro nonni. Ma non c’entra niente. Non esistono nonni, vecchi, giovani, anziani, adulti, bambini. Esistono solo esseri umani. Unici e irripetibili.
Il giorno in cui capiremo che vanno abbattute le ghettizzazioni in cui ci stiamo rinchiudendo, in cui elimineremo le caste occidentali, tutte incentrate sull’età e sul reddito, forse potremo sperare in una società che possa presentarsi come esempio nelle zone più “povere” del mondo.
Ma noi ci ostiniamo a far prosperare questa società decadente e oppressiva in cui viviamo, in cui l’età media dei protagonisti di un film o di uno spot è 30 anni e quella della popolazione 60, in cui l’anziano non esiste, se non in politica. In cui esiste un termine osceno come “vecchio” e uno altrettanto aberrante come “giovane”. In cui si vivono e si frequentano esclusivamente “coetanei”, impedendo così ai più giovani di imparare dai più anziani e ai più anziani di prendere nuova linfa dai più giovani.
Noi viviamo tra depressione, inquinamento, problemi di soprappeso, frustrazioni lavorative, precariato, Prodi e Berlusconi, reality show e pornografia, sesso represso e sesso esibito, animali in gabbia, cibo avariato, aviaria nel cibo. Com’è possibile? E perché se entro in una scuola italiana vedo facce svogliate, violenza, noia e se vado in una baraccopoli indiana vedo gioia, sorrisi, vita?
In una società che invecchia, i vecchi non sono gli ottantenni.
I vecchi siamo noi, più o meno nuove generazioni inerti che si limitano a prosperare economicamente ed a morire spiritualmente. Ma tanto per non sbagliare, riusciamo a importare tutto il nostro vuoto in ogni angolo del mondo.
Con mio nonno Lucio e con mia nonna, ho imparato cos’è l’amore. Ho imparato la meraviglia delle piccole cose.
Ho imparato cosa significa conquistarsi finalmente la patente a 45 anni, con i propri risparmi. Ho imparato la meraviglia di un tempo che fu, l’incredibile potenza della semplicità, la prorompente energia della generosità, della canzone, del ballo lento, armonioso, innamorato. Grazie, Lucio! Ciao, Lucio.
Articolo scritto nell'aprile 2006
2 Maggio 2008 - Scrivi un commento
SARà LA PIU BELLA RISATA DELLA NIA VITA
NICOLA