D’improvviso, una leggera brezza iniziò a salire dal bosco, ed una melodia simile a quella di un organo pervase l’aria, e il suono sembrava provenire da tutte le parti contemporaneamente. Angus si girò verso di me e disse – Non hai idea di cosa abbia fatto questo suono, vero? – Scossi la testa. Si diresse allora verso la riva del lago, dove crescevano alcune canne, rotte dal vento e dal ghiaccio appena formato. Ne tagliò una, praticò dei forellini su un lato, ed iniziò a suonare la stessa melodia. Quando finì, si voltò verso di me e disse – Ecco come noi abbiamo imparato a suonare la nostra musica.”
Per molto tempo biologi e zoologi hanno focalizzato la loro attenzione sulle vocalizzazioni di singoli animali: balene, scimpanzé, uccelli, rane. Ma cercare di comprendere il significato di questi suoni estratti dal loro contesto, è come cercare di capire il linguaggio dell’uomo ascoltando una conversazione con un solo interlocutore. O meglio, è come cercare di immaginare l’Inno alla Gioia ascoltandone solo un violino.
I popoli nativi che vivono nelle foreste sanno orientarsi anche solo attraverso i suoni. Distinguono ambienti identici alla vista perché sono in grado di percepire i diversi modi in cui si rifrange il suono. Non sono esseri soprannaturali, sono umani, animali come lo siamo noi, hanno i nostri stessi sensi, ma al contrario di noi occidentali li continuano ad utilizzare per la propria sopravvivenza… ed il proprio piacere.
L’orchestra della natura è un fine accordo fra i suoi componenti. Uccelli, insetti, mammiferi… ognuno di loro si inserisce all’interno di un certo range di frequenze, in modo tale che il canto di uno non copra quello dell’altro. Diversi studi hanno dimostrato che, quando un individuo smette di vocalizzare, un altro si inserisce nella sua “nicchia sonora” (da cui, The Niche Hypothesis), occupando frequenze rimaste libere.
Schafer, il fondatore del concetto di “paesaggio sonoro”, ne ha paragonato i componenti a quelli di una melodia: ci sono le note chiave, che identificano la tonalità fondamentale, i suoni di primo piano, che hanno lo scopo di attrarre l’attenzione, ed i suoni distintivi, che caratterizzano un certo tipo di ambiente (ad esempio, una cascata, un geyser, ma anche suoni tradizionali umani come quello di una campana o la sega sul legno).
I suoni di un ambiente esprimono l’identità della comunità che ci vive. Non solo la natura come siamo soliti pensarla (ovvero senza l’uomo…innaturale) può produrre una orchestra di suoni, ma l’uomo stesso, come accadeva fino a poco prima la rivoluzione industriale. Da allora, motori di ogni tipo e onde a bassa frequenza dai cavi elettrici sono diventati le note chiave dei nostri paesaggi sonori, che hanno perso i loro suoni distintivi a causa del processo di globalizzazione.
Abbiamo inventato scarpe con tacchi rumorosi per poter sentire il rumore dei nostri passi. La cosa più grave in tutto questo è la perdita della percezione di noi stessi… se non riusciamo ad ascoltare i passi che facciamo, non possiamo più fare attenzione al modo in cui il nostro corpo si inserisce nel contesto. Chi sono io che non emetto suoni?
La perdita della capacità, ma anche della possibilità, di percepire le sfumature dei nostri paesaggi sonori ha portato ad una banalizzazione del suono che si riduce in scelte binarie: un suono è bello o brutto, buono o cattivo. La maggior parte dei suoni che percepiamo in città sono bollati come “cattivi”. Vivendo 24 su 24 in un ambiente di pessimi suoni senza mezzi termini, siamo innaturalmente portati a cercare il silenzio assoluto. Negli Stati Uniti sono aumentati drasticamente gli omicidi nei confronti di vicini definiti “troppo rumorosi”.
Quello che suggerisce Bernie Krause è di ascoltare le proprie orecchie. Registrare suoni, oltre che fare foto, perché i suoni possono far rievocare la memoria più di quanto non possa farlo un’immagine. La foto di un leopardo che ci fissa in fase di attacco può forse strapparci un sorrisetto nervoso, quando è tanto, ma il suono del suo respiro e del lieve ruggito fa accapponare la pelle.
Quantomeno, regalatevi un cd di suoni della natura, chiudete la finestra ed ascoltatelo con la luce spenta, lasciando fluire i pensieri. Ogni giorno ascoltiamo più di quanto non ci rendiamo conto e la sera la testa è piena di suoni indistinti. Fermarsi ad ascoltare i pensieri, le famose “voci nella testa”, non è da pazzi. Io l’ho fatto, ed è una cosa meravigliosa.
Fonti:
Krause, B. L. 1993. The Niche Hypothesis: A hidden symphony of animal sounds, the origins of musical expression and the health of habitats. The Explorers Journal, Winter 1993, pp. 156-160.
Krause, B. L. 2002. The loss of natural soundscapes. Earth Island Journal, Spring.
Wrightson, K. 2000. An Introduction to Acoustic Ecology. Soundscape, 1(1):12-13.
Un buon libro, che spiega come registrare i suoni della natura con un’attrezzatura economica:
Krause, B.L. 2002. Wild Soundscapes: Discovering the Voice of the Natural World. Berkeley, CA: Wilderness Press.