Con il recente vertice del Wto a Ginevra si è cercato di chiudere un accordo globale sui commerci, secondo un’architettura concepita alla fine 2001 nella Conferenza di Doha. La mediazione fra Occidente e paesi emergenti, in sostanza, prevedeva che il primo avrebbe concesso un più facile accesso ai prodotti agricoli dei secondi, mentre questi avrebbero lasciato un mercato più aperto a beni industriali e servizi dei paesi avanzati.
Agricoltura in cambio di industria, secondo un’impostazione liberalizzatrice, che faceva perno sull’alleggerimento di dazi e sussidi protezionistici da entrambe le parti. Ma negli anni in cui è proseguito il tavolo di Doha l’asse dei commerci globali è ruotato e ora i paesi emergenti competono sui mercati industriali con forza paragonabile o superiore a quella occidentale. Così le soglie daziarie concepite anni addietro risultano inadeguate ai nuovi equilibri: per esempio, l’importazione di auto in Europa da Cina o India oggi verrebbe penalizzata solo per il 4,5%, mentre le barriere di questi paesi si sarebbero mantenute secondo gli accordi intorno al 20% in molto settori.
Eppure il recente meeting di Ginevra, atto conclusivo del Doha Round, si è arenato sull’agricoltura, non sull’industria. E sul terreno dei paesi emergenti e non delle nazioni occidentali. Soprattutto, si è incagliato sul tema del cibo e della protezione dei piccoli contadini. Motivo dell’impasse è stata l’intenzione dell’India, seguita su posizioni analoghe dalla Cina, di stabilire nel 10% di aumento dell’afflusso di prodotti agricoli la soglia oltre la quale far scattare particolari misure protezionistiche; la bozza dell’accordo, invece, parlava del 40%.
Alla base della preoccupazione indiana c’è la crisi alimentare: i prezzi e la scarsità del cibo spingono all’autosufficienza. Al di là della narrazione oggi in voga, che vuole India e Cina come giovani e grandi potenze dell’economia globale, questi paesi presentano ancora sacche imponenti di malnutrizione (in India il 43% dei bambini sotto i cinque anni non mangia a sufficienza).
Sull’altro versante della barricata stanno l’Unione Europea e, soprattutto, gli Stati Uniti. Entrambe le aree hanno sviluppato un sistema agricolo fortemente sostenuto da sussidi. Gli Stati Uniti ipotizzavano di raddoppiare durante questi negoziati il tetto massimo delle sovvenzioni per i propri agricoltori. Da questo punto di vista la politica europea è più lungimirante: al di là del fallimento del vertice, si andrà comunque a una autonoma riduzione degli elevati sussidi attuali, che hanno un effetto distorcente anche in ambito comunitario. Ciò che invece l’Unione Europea ha lasciato sull’altare delle trattative è un più alto livello di tutela dei propri marchi tipici di qualità, che altrove portano bei soldi grazie alle contraffazioni.
E’ stato l’intreccio di queste contese ad affondare l’intelaiatura del Doha Round a pochi passi dall’accordo. Sembra che su gran parte delle tematiche si fosse trovata la convergenza, ma non sulle questioni alimentari. Del resto oggi, fra sovvenzioni, dazi e squilibri di altro tipo, si è affermato un mercato agricolo gravemente distorto: da un lato prodotti occidentali competitivi solo grazie ai forti sussidi, dall’altro grandi monoculture da esportazione imposte ai paesi poveri dalle multinazionali, nel mezzo ortaggi e frutta che navigano fra continenti diversi (in tempi di petrolio oltre i 120 dollari), alla finestra produttori di biocarburanti, lobbysti degli Ogm e speculatori finanziari che cercano dei varchi per i propri guadagni. Nessuno stupore se è stato il cibo a zavorrare gli accordi sul commercio.
Da ultimo la campana suona per le istituzioni multilaterali. Questo del Wto è solo il più recente di una serie di imbarazzate battute d’arresto degli organismi di controllo della globalizzazione. Un altro esempio di come enti senza forza non riescano a ricomporre gli interessi di paesi e gruppi di potere divergenti. L’ottavo Obiettivo del Millennio appare lontano anche nelle premesse.
31 Luglio 2008 - Scrivi un commento