L’ha firmata anche il Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, nei giorni scorsi, a Terrafutura, fiera-convegno sulle buone pratiche di vita, impresa e governo che si svolge a Firenze a fine maggio ormai da sette anni. “Il lascito più doloroso del liberismo alla Thacher e alla Reagan - ha commentato Rossi - è la bolla finanziaria. Si tratta di un’economia di carta sostenuta da una politica di plastica. A ogni crisi dicono che si bruciano miliardi e miliardi. Io non vedo il fumo, ma vedo che qualcuno si arricchisce. Quello che rischia davvero di andare in fumo in Italia è lo stato sociale, mentre si fa poco o nulla contro l'evasione fiscale e la corruzione”.
Cos’e la TTF?
La Tassa sulle Transazioni Finanziarie è un prelievo con un'incidenza molto ridotta (le proposte sono varie, ma si muovono comunque nell’intervallo tra lo 0.01% e lo 0.1%) da applicare su ogni compravendita di titoli (azioni e obbligazioni) e strumenti finanziari (contratti derivati, cambio valuta, ecc).
La campagna italiana, portata avanti da numerosissimi promotori, come ACLI, ARCI, CISL, Attac, Mani Tese, Un ponte per, WWF, ecc., propone una tassazione dello 0.05%, una percentuale che si ritiene abbastanza elevata da avere la sua incidenza sulle attività speculative, ma non tanto da pesare sui normali movimenti di mercato.
Perché tassare le transazioni finanziarie?
Per stimare il valore monetario dell’economia reale dell’intero pianeta, secondo convenzione si sommano i prodotti interni lordi di tutti i paesi. Se si compie questo calcolo si ottiene la cifra di 58 mila miliardi di dollari. Se invece si sommano i valori di azioni, transazioni valutarie e titoli derivati si raggiunge la cifra di un milione e mezzo di miliardi di dollari, ossia quasi trenta volte di più. Com’è possibile che esista questa differenza tra economia reale e movimenti finanziari? Ebbene, i due zeri aggiuntivi sono espressione di crediti vantati, ma quasi mai liquidati, di titoli e contratti che per la maggior parte non saranno mai convertiti, ma solamente scambiati al fine di aumentarne il profitto. È tutto virtuale, sono pezzi di carta, anzi cifre nei terminali dei calcolatori. È proprio a tale deviazione del sistema che si devono le instabilità che hanno condotto alla recente crisi e che ci sottopongono al costante pericolo di nuovi tracolli finanziari.
Questa che è stata definita “bolla finanziaria” si è creata e accresciuta in virtù dell’inseguimento, da parte degli operatori, del massimo profitto derivante da azioni continue di compra-vendita. Oggi è possibile acquistare e cedere titoli e azioni anche migliaia di volte in un solo giorno, per tutte le 24 ore a disposizione, nella speranza di guadagnare su piccole oscillazioni dei prezzi degli stessi titoli. Tutto ciò è lontano galassie dalla reale economia di produzione, è solo speculazione e rende i mercati continuamente instabili e volatili.
È dunque necessario mettere un freno a queste operazioni che fanno l’interesse di pochi e il danno di risparmiatori, lavoratori, cittadini, tutti i protagonisti effettivi di quel sistema produttivo reale che finanzieri in giacca e cravatta guardano con il binocolo. Per far ciò, i governi e la società civile hanno un solo strumento (che però può essere molto potente se ben adoperato): la pressione fiscale, in termini più semplici, le tasse.
Essa in primo luogo scoraggerebbe le attività altamente speculative, di cui sopra. Essendo compiute – come detto – migliaia di operazioni di compravendita al giorno sul medesimo strumento finanziario, evidentemente gli operatori si troverebbero a pagare l’imposta altrettante volte, ossia per ogni operazione. Ciò renderebbe i movimenti continui meno vantaggiosi in quanto ne ridurrebbe o annullerebbe i guadagni. Questo è l’unico modo per impedire l’imperversare di tali movimenti e controllare la crescita della bolla.
La tassa alla stesso tempo è di entità piuttosto modesta, quindi andrebbe a colpire solo le azioni speculative, non quelle normali, cioè compiute da chi opera sui mercati con un ottica di medio-lungo termine, in quanto il numero di operazioni compiute da questi ultimi operatori sono limitate in numero.
In più, la TTF si applica a tutte le tipologie di strumenti e titoli, ma solo nell’ambito dei mercati finanziari, mentre tutti gli altri trasferimenti - come pagamenti per beni e servizi, prestazioni lavorative, rimesse dei migranti, prestiti interbancari e altre operazioni delle banche centrali - non verrebbero tassati in alcun modo.
In secondo luogo, l’applicazione della tassa sulle transazioni permetterebbe il rientro di ingenti capitali che potrebbero essere impiegati per risanare i conti pubblici, sui quali si sono abbattuti pesantemente i costi della crisi finanziaria e soprattutto del recupero-soccorso messo in atto subito dopo da tutti i governi, per un ammontare di 13 mila e seicento miliardi di dollari. Gli introiti potrebbero essere utilizzati anche per attuare politiche di welfare, per finanziare progetti di sostenibilità sociale e ambientale, nonché investire nella lotta alla povertà assoluta su tutto il pianeta.
Quanto denaro si raccoglierebbe tramite questa tassa?
Secondo le stime dell’economista Steohan Schulmeister, dell’Austrian Institute of Economic Research-WIFO, se si applicasse un prelievo dello 0.05% in tutto il mondo, si potrebbero raccogliere 655 miliardi di dollari all’anno. Una cifra davvero non indifferente.
A questo punto l’obiezione che più di frequente viene rivolta ai sostenitori di questa tassa è: se la tassa non fosse adottata in contemporanea in tutto il mondo, bensì entrasse in vigore solo in alcuni paesi, questi ultimi vedrebbero migrare le operazioni finanziarie verso i mercati che non la applicano.
Gli esperti dicono che questo non è un rischio fondato, per varie ragioni.
Prima di tutto vari paesi adottano già alcune forme si tassazione (meno generalizzate della TTF) sulle operazioni finanziarie. In particolare i due mercati più grandi, liquidi e sviluppati del mondo, ossia la City di Londra e Wall Street a New York.
In più, per evitare la fuga delle attività verso paradisi detassati è sufficiente stabilire una percentuale di tassazione tale che il costo dell’imposta, pur restando significativo, sia inferiore a quello della delocalizzazione delle attività. Il valore di 0.05% sembra conciliare tutte queste esigenze.
Ultimo punto da chiarire: TTF e Tobin Tax (per cui si è lottato per anni senza successo) sono la stessa cosa?
No, però sono imparentate. La Tobin Tax (dal nome dell’economista, James Tobin, che la formulò negli anni ’70) e le successive varianti si riferivano esclusivamente agli scambi di valuta, mentre la TTF abbraccia tutte le transazioni su strumenti finanziari, ossia valute, azioni, obbligazioni, derivati, ecc. In pratica adottando la TTF si vanno a colpire molti più movimenti speculativi di quanto non si potesse fare con la Tobin Tax.
Certo, l’insuccesso delle campagne di promozione di quest’ultima non lasciano ben sperare riguardo alla TTF, che sarebbe persino più incisiva, però oggi si può far leva sulla recente crisi, che ha effettivamente portato sotto gli occhi di tutti la malattia insista nel sistema e ha acceso gli animi di molti risparmiatori.
Cosa possiamo fare noi cittadini?
Informarci, comprendere, firmare la petizione, spiegare ad amici e parenti e quindi farli firmare a loro volta. Basta connettersi al sito www.zerozerocinque.it
Ricordiamoci di esercitare il nostro potere democratico di cittadini. Anche in un settore come la finanza, così tecnicistico e – paradossalmente – lontano dalla vita “reale”.
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