I numeri, quelli ufficiali del governo, e quelli ufficiosi della popolazione, dei monaci buddisti e delle ONG internazionali non concordano, ma danno comunque un'idea della gravità della situazione e del modo in cui il governo cinese la stia gestendo. Inizialmente si parlava di poche centinaia di vittime, poi Pechino ha comunicato che il terremoto avrebbe ucciso 2223 persone, 90 sarebbero scomparse, mentre i feriti sarebbero circa 12000. Diverse le cifre dei monaci e delle ONG che parlano di oltre 6000 morti, mentre per i sopravvissuti la cifra è sicuramente superiore ai 15 mila. Un altro esempio è quello dei 23 mila monaci dell'ordine gelugpa, dei quali il governo dice che solo 84 sarebbero morti, mentre i bonzi contano oltre 1000 vittime tra i confratelli.
Anche la storia e l'architettura buddista hanno pagato il loro prezzo. Gyegu, la città santa dei tibetani, è praticamente rasa al suolo. 87 monasteri buddisti sono crollati e il 60% dei restanti è inagibile. Il Sengze Gyanak Mani, la montagna di pietre sacre più grande al mondo, costituita da oltre 2 miliardi di sassi con incisi i mantra, non esiste praticamente più. Migliaia di icone statue e dipinti delle divinità tibetane sono andate distrutte.
Sempre a Gyegu e provincia sono crollate il 70% delle 192 scuole, le altre, ovviamente, sono inutilizzabili. Le cifre ufficiali, ancora una volta, parlano di soli 207 studenti morti, mentre i monaci hanno elenchi che testimoniano almeno 769 studenti morti nei soli istituti di Gyegu.
In tutto questo i soccorsi volontari dei monaci sono stati bloccati, i 12 mila militari inviati da Pechino sembrano poco attivi nello sgombero di strade ed edifici e la situazione continua a peggiorare. Ha nevicato più volte, l'elettricità e l'acqua sono interrotte e l'unica strada che collega in 18 ore di camion Gyegu a Xining è bloccata da una lunga fila di tir, spesso impantanati nel fango ghiacciato (di notte la temperatura scende a 10 gradi sotto zero). Nei giorni successivi al terremoto i sopravvissuti si sono divisi tra chi cerca di recuperare la legna tra le macerie e chi si preoccupa invece della cremazione dei corpi.
Il "funerale del fuoco" è un vero e proprio trauma per i tibetani che per tradizione lasciano i corpi dei defunti agli artigli degli avvoltoi o alla clemenza delle acque, ma ovviamente visto il numero delle vittime né gli avvoltoi né i pesci sono in numero sufficiente a portare le anime nella prossima vita.
In questi giorni i TG cinesi trasmettono solo immagini di soldati e funzionari di partito al lavoro. Wen Jiabao e Hu Jintaoo, poi, sono stati immortalati nel corso delle loro visite e dei loro bagni di folla. La scene così descritte assomigliano molto, con le dovute proporzioni, a quelle viste in Italia nelle settimane successive al sisma dell'Aquila. Sciami e sciami di politici alla ricerca di 30 secondi di santità all'interno del TG della sera. Questo ci fa capire, una volta di più, come ormai la globalizzazione sia cosa fatta almeno nel malcostume e nella gestione della comunicazione.
Tra qualche mese se una notizia proveniente da oriente dovesse parlare del miracolo cinese, della costruzione di una nuova città (o new town che dir si voglia) nel cuore del Tibet non ci stupiremo. Saremo consapevoli in quell'occasione che la realtà è un'altra cosa e che non bastano ruspe e miliardi regalati al primo imprenditore sciacallo per rimettere in piedi il Sengze Gyanak Mani o alcune delle pagode distrutte in questa tragedia umana e culturale.
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