Secondo la ricostruzione dei carabinieri, in seguito smentita da Enel, la pressione eccessiva fa esplodere improvvisamente il tubo di raffreddamento dell'impianto, ed un getto liquido colpisce con violenza un operaio, scaraventandolo contro un palo. Sergio Capitani, 34 anni, originario di Tarquinia, muore per il trauma, nonostante i tentativi di rianimarlo. Altri tre operai restano intossicati dalle esalazioni dell'ammoniaca.
Così i morti nella centrale di Torrevaldaliga salgono a tre, in tre anni. Decisamente troppi, soprattutto se si considera che si tratta di tragedie evitabili – lo si dice puntualmente in questi casi, poi altrettanto puntualmente non si fa niente per evitarle – dovute al mancato rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro.
Che la centrale non fosse sicura lo si sapeva già da tempo. Lo aveva denunciato un anno fa l'eurodeputato Roberto Musacchio di fronte al parlamento europeo. Ma molto prima di lui, prima ancora dei tre incidenti mortali, lo aveva detto la madre di un ragazzo infortunatosi gravemente sul lavoro.
L'incidente era avvenuto sei anni fa: un martello di circa due chili di peso scivolato di mano ad un operaio era finito addosso al ragazzo che si trovava 14 metri più in basso; niente lacci di sicurezza, nessuna rete di protezione. Il ragazzo se l'era “cavata” con una frattura, per quanto grave. Adesso la madre si sfoga sul blog di Beppe Grillo. “Quando mio figlio si fece male io denunciai la situazione di scarsa sicurezza sul lavoro ai partiti e al sindacato, ma non venni ascoltata”.
A rincarare la dose ci pensano gli operai, durante lo sciopero seguito alla tragedia. “L'Enel – spiegano due di loro, che preferiscono restare anonimi per non rischiare il posto di lavoro – ha mandato i colleghi allo sbaraglio come del resto avviene troppo spesso. Quando accadono questi incidenti è dimostrato che noi le attrezzature di protezione le indossiamo sempre, ma l'Enel ci costringe ad interventi pretendendo rapidità senza saper garantire che a monte vi sia la messa in sicurezza necessaria ad evitare gli incidenti”.
Questo ennesimo fatto di cronaca nera, può essere spunto per alcune considerazione su ambiti diversi. Innanzitutto emerge in maniera sempre più evidente il quadro drammatico della sicurezza sul lavoro in Italia e l'incapacità di instaurare un dibattito pubblico sull'argomento. Il nostro paese è stato maglia nera d'Europa per un lungo periodo e la situazione non pare molto migliorata – si veda a tal proposito il documentario “Gli ultimi del paradiso” che smentisce le statistiche Inail.
La sicurezza degli operai, che dovrebbe essere una conditio sine qua non del lavoro in fabbrica, è troppo spesso considerata alla stregua di una voce di bilancio, pronta a subire in periodi di crisi economica. Un atteggiamento del genere mette in mostra le contraddizioni di un sistema lavorativo, e di una società in genere, che solo apparentemente mettono l'individuo al centro delle proprie priorità, ponendovi in realtà solo la sua proiezione economica e tralasciando la tutela di tutti gli altri aspetti, salute in primis.
Insomma si muore nelle fabbriche e si muore anche fuori. E al dramma degli incidenti si aggiunge l'altro dramma, che sta in mezzo fra una morte e l'altra: il silenzio assordante che sopraggiunge non appena si spengono le telecamere e finisce il clamore per un fatto di cronaca. Un silenzio interrotto solo da qualche dichiarazione rassicurante: “va tutto bene, le emissioni sono nella norma, non esiste un problema sicurezza”. In attesa di un altro decesso.
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