La rete industriale bolognese ha una struttura particolare, che coinvolge realtà di tutte le dimensioni: le grandi aziende di livello internazionale – una su tutte l’IMA, Industria Macchine Automatiche – si appoggiano infatti a una fitta rete di fornitori costituita da piccole e medie imprese che lavorano sul territorio creando un sistema articolato e diffuso.
Apparentemente in grado di resistere alle turbolenze della finanza internazionale, le grandi aziende come l’IMA accusano pesantemente la recessione poiché essa va a colpire prima di tutto, e molto duramente, proprio quelle piccole realtà che costituiscono la base dell’industria, spesso ditte con poche decine di dipendenti, che collassando una dopo l’altra hanno l’effetto di un pavimento che si sgretola sotto i piedi dei colossi dell’industria del packaging bolognese.
Per fronteggiare questa situazione potenzialmente letale sono scese in campo CNA e Unindustria di Bologna, proponendo un Patto di filiera. Questo consiste «nella definizione di una filiera e dei suoi valori di produzione, consentendo una programmazione delle commesse che coinvolge l'azienda committente, i fornitori ed i subfornitori di secondo livello».
In pratica, si può dire che tutte le fasi del processo produttivo vengono “istituzionalizzate”, prevedendone costi, tempistiche e quantitativi; rispetto alla definizione di queste variabili, vengono quindi erogati dei contributi liquidi alle piccole aziende, che hanno così la certezza dell’entrata indipendentemente dagli imprevisti di programmazione che, in un momento di indeterminatezza come quello che stiamo attraversando, rischiano di essere fatali.
Componente fondamentale di questo patto sono gli istituti finanziari, che garantiranno un costante apporto di risorse liquide: Unicredit e UGF Banca, appartenente al gruppo Unipol.
Proprio l’IMA è protagonista del progetto pilota che saggerà la funzionalità del meccanismo, che poi – se avrà successo – verrà esteso a tutto il comparto.
Il Sole 24 Ore ha definito questo patto come un «nuovo modello di coesione sociale», poiché – seguendo l’esempio dell’economia veneta, che da anni si basa su questo tipo di sinergie – prende ufficialmente atto della necessità di “fare quadrato” anche nel settore industriale e di ripensare alcuni criteri che regolavano fino a pochi mesi fa il mercato e l’economia italiana, criteri basati sulla competitività, sulla massimizzazione del profitto e sull’ottimizzazione delle risorse, anche attraverso metodi estremi come la delocalizzazione.
Abituati a pensare male – non per via di un preconcetto, ma semplicemente in base all’analisi di una realtà economica resa pazza e incontrollabile proprio da pratiche quali speculazione e delocalizzazione – non siamo del tutto convinti della bontà e della buona fede dei fautori di questo mutamento di rotta. È impossibile non notare che due degli attori di questa svolta – Unicredit e Unipol – sono indiscutibilmente due grandi navi corsare che solcano il torbido mare della finanza internazionale, a loro volta protagoniste nel recente passato di vicende poco chiare.
Insomma, come disse una volta un personaggio non proprio raccomandabile, «a pensare male si commette un peccato, ma quasi sempre ci si prende». Ci tengo però a ribadire ancora una volta che i dubbi non sono affatto suscitati da una contrarietà “ideologica”, quanto piuttosto dalla constatazione che questa nuova strada è stata imboccata dagli stessi che sostenevano così entusiasticamente la new economy fino a pochi mesi fa, salvo poi trovarsi spiazzati quando quel modello ha miseramente fallito.
Tuttavia, poiché amiamo pensare positivo ed essere ottimisti al limite dell’illusorietà, è bene evidenziare anche il lato positivo della faccenda, cioè che, seppur implicitamente, questo cambio di rotta è un’ammissione della fondamentale importanza della dimensione locale dell’economia.
Quello che esperienze realmente virtuose stanno cercando di mettere in pratica in questo campo, può essere perseguito anche da soggetti che – diciamo così – hanno qualcosa da farsi perdonare, da grandi aziende multinazionali che sembrano quasi come un ladro che, fra l’umiliato e il seccato, torna dalle sue vittime ammettendo la propria colpa e restituendo il maltolto.
In fin dei conti, si potrebbe concludere che l’importante è che l’industria e l’economia in generale si rendano conto che la necessità più urgente e importante è ricominciare a dare il giusto peso e valore alle realtà locali, alle piccole imprese che sono il sale del tessuto economico nazionale.
Sarebbe bello che lo facessero mosse da un sincero sentimento e da una reale volontà di cambiamento, ma il suono della campanella dell’allarme oramai è talmente assordante che per ora ci accontenteremmo anche di un’ammissione di colpa a denti stretti, se questa è accompagnata, come nel caso dell’industria del packaging bolognese, da un tangibile cambiamento di rotta nella pratica.
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