Alziamo lo sguardo. Mordecai Richler ha confezionato un piccolo gioiello. Per l’affetto e la gratitudine che si provano dopo averlo letto, verrebbe da augurarsi che i posteri lo eleggano, da piccolo fenomeno di culto che è ora, a classico del Novecento. Resta comunque un romanzo di grande intelligenza e sensibilità, che commuove e porta al riso nel volgere di poche righe. Gli affreschi psicologici dei vari personaggi sono più che realistici: sono pulsanti, catturano. La trama è avvincente, vagamente innestata su un motivo da giallo (quello del presunto omicidio), ma assolutamente eccedente quest’ultimo. In effetti è quasi impossibile racchiudere la storia entro una qualche etichetta: alla fine si ha la sensazione di avere assistito a uno spaccato di vita vera, appena romanzata, ma di quella poesia e “surrealtà” che, a volersene accorgere, è poi presente nella vita di tutti.
Lo stile è vivace e intrigante, quasi troppo se si vuole: i dialoghi sono a volte così brillanti da non apparire più tanto realistici. Ma è un’osservazione ingenerosa, così come quella che avvertirebbe di tenere duro per le prime cento pagine, non perché siano noiose, ma perché risulta un po’ faticoso entrare nel gioco confuso e frammentario della mente di Barney. Ma le altre 380 pagine volano e verso la fine verrebbe voglia di rallentare la lettura. Per non scoprire che il vecchio rompiscatole forse non esiste. Vorremmo sentire ancora dei suoi anni giovanili a Parigi, del suo amico Boogie e del suo rivale Terry Mc Iver. Vorremmo ancora che sospirasse per il vuoto lasciato da Miriam. Che producesse una altro po’ di tv spazzatura o dimenticasse almeno un altro paio dei sette nani. Che creasse, brontolasse o bevesse un altro po’. Vorremmo sentire ancora qualcosa della sua insofferente, adorabile versione della vita.
Amare l'arte è benessere
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