Ben presto, grazie all’inflazione della sua immagine, è convinto di non essere più solo .
Ipotizza incendi e sciagure, ipotizza uscite di sicurezza per portare in salvo lo spettatore medio che lui stesso rappresenta.
Nel pieno del suo delirio auto presenzialista arriva a farsi donna con tutta la sua nudità camuffata; e a farsi uomo, pensandosi ora l’una ed ora l’altro, immaginando di uscirsi insieme per rientrarsi accanto.
E solo quando è costretto a mettere un cane a difesa della sua abitazione capisce di esser solo e di essere lui quel cane posto a tutela della proprietà.
Ma con un colpo di coda inaspettato torna da cane a politico ed accusa gli elettori di non aver capito. Di non aver capito che nulla è mai esistito. L’unica cosa che esisteva era la sua solitudine.
Che non può essere fotografata perché la solitudine è l’assenza di chi non ti è vicino.
Bahamut invece inizia con un uomo steso che fa le veci del tiranno.
E cede il passo all’atleta di Dio che volteggia sulle sbarre con le braccia della disperazione.
E poi un nano, più basso delle sue ambizioni, che usa lo scuro per fare, e la luce per dire.
E quindi la realtà figurata delle vittime del povero consumo, connotate da assenza di astrazione, con il padrone unto dall’autorità del denaro.
Ma si affaccia Bahamut, l’essere supremo, che dopo breve apparizione si sottrae al tempo e al giudizio.
Mentre la merce si mescola a corpi fatti a pezzi.
Pezzi di uomo ancora da nascere ma già immolati alla meschinità costituita.
E un amico che parla senza voce e sente senza orecchie.
Ma il senso della vita si incontra solo all’infinito dove l’uomo fa la fine del capretto da sgozzare.
Brufoli e depressioni tristemente accomunati con le bibite a ghiacciare le parole nella gola.
Ma la corsa al vestire il corpo nudo e verme non da tregua all’uomo pellegrino, mentre le braccia del padrone, camuffate da proletariato, saltano al ritmo di una danza di classe.
E il gran finale, con i personaggi a fare la figura degli sguatteri mentre l’autore che li muove è il gerarca dalla lingua biforcuta.
L’ inserimento delle urla come suono costituisce il nuovo orecchio di uno spettacolo fatto per i soli occhi.
Privilegio di chi vede è il non capire ciò che un altro fa. Le parole aiutano la miseria della media comprensione.
Le urla fanno la musica senza le mani. La gola non si suona con le dita a meno che non ci si voglia soffocare. E nessun urlo può essere raggiunto dalle mani, tirato fuori e mostrato a chi ci guarda.
Insomma con le urla ci si accorcia il patibolo. Ma questo sembra un atteggiamento pessimista di chi non ama la vita a sufficienza. E invece no, io amo fare quello che non si può comprendere.
In questa opera ultima le urla unificano le parole intere: le urla sono fatte solo di vocali allungate che cingono la preda del concetto e la mandano a morire nella testa di chi ignaro si attarda a capire.
Tratto da www.rezzamastrella.com
Amare l'arte è benessere
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