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OMAGGIO A KAPUSCINSKI. UMANITA' E LUCIDITA' DI UN PICCOLO REPORTER
E’ morto a Varsavia il 24 gennaio 2007 Ryszard Kapuscinski, uno dei maestri del giornalismo di viaggio. Dai suoi reportage, in particolare dai paesi del terzo mondo, traspaiono la partecipazione umana, tanto quanto la meticolosità giornalistica nei confronti delle vicende cui si è accostato in cinquant’anni di attività.

Stefano Zoja

Ryszard Kapuscinski era un uomo e un giornalista fuori moda. Il fisico piccolo e sbilenco, il volto gioviale. Una persona – e un giornalista – che aveva ritegno e persino difficoltà nel fare domande, spaventato com’era all’idea di parlare in pubblico. Una sera tardi, già celebre reporter, entrò in un ufficio accanto al suo, si fermò e disse: “mi si è rotto il fax, potrei per piacere usare quello del vostro ufficio, se non vi è di troppo disturbo?”. Lo conobbe così Magdalena Rittenhouse, giornalista polacca e in diverse occasioni sua traduttrice. Anche Paolo Rumiz su Repubblica ha conservato il semplice ricordo di come sul volo Milano – Zurigo ringraziasse di continuo le hostess per ogni nonnulla.

Tutto comincia quando, un bel giorno, mi accorgo che nel limpido cielo azzurro di una fine estate (e nel settembre del 1939 il cielo era di un azzurro immacolato, senza una nube) in alto, molto in alto, spuntano dodici punti argentei luccicanti. La cupola celeste risuona di un rombo sordo e monotono, mai udito finora. Ho sette anni, sto in mezzo a un prato (la guerra ci aveva sorpreso in campagna, nell'Europa orientale) e fisso i puntini argentei che impercettibilmente si spostano nel cielo. In quel momento, sul limitare del bosco vicino risuona uno spaventoso boato, sento gli scoppi delle bombe che esplodono. […]
Per i sopravvissuti la guerra non finisce mai in modo definitivo. Secondo una credenza africana, un uomo muore veramente solo quando muore l'ultima delle persone che lo conoscevano e lo ricordavano. In altre parole, smettiamo di esistere quando al mondo non c'è più un solo portatore di memoria. Qualcosa del genere accade anche per la guerra.


Kapuscinski ha conosciuto la guerra da bambino. Quando le cose s’imprimono nella coscienza senza mediazione, senza l’attenuazione che può offrire la razionalità. Per tutta la guerra non ho fatto che sognare le scarpe. Di possederne un paio. Anche per questo Kapuscinski cinquant’anni dopo ringraziava le hostess. E non aveva bisogno di fare domande quando si trovava all’estero: i diseredati si confidavano con lui spontaneamente, riconoscendo l’odore di un altro che aveva sofferto. Kapuscinski aveva avuto la pelle dei piedi dura come il cuoio.

Studiò a Varsavia, poi entrò nell’organico dell’agenzia di stampa polacca Pap. Vi lavorò fino al 1981 come corrispondente e inviato da Asia, Africa e America latina. Il suo primo viaggio fu del 1956, quando nel suo paese, che stava giusto cercando di uscire dallo stalinismo, venne mandato dall'organo della gioventù comunista, in India, perché il presidente Nehru era appena stato a Varsavia e in alto, nel partito, si riteneva opportuno occuparsi di quel paese. Vi rimase sei mesi, perché la crisi di Suez impedì il ritorno alla nave polacca su cui avrebbe dovuto imbarcarsi. Prima di allora non era mai uscito dalla Polonia e sbarcò in India senza conoscere una parola d’inglese.

Il primo round della mia lotta con l’India si svolse sul terreno linguistico. Capivo che ogni mondo aveva il proprio segreto e che la sola chiave per accedervi era la lingua. Senza di essa, il mondo che si voleva conoscere rimaneva impenetrabile e incomprensibile anche a restarci per anni. Inoltre mi ero reso conto di un nesso tra i nomi e le cose: una volta rientrato in albergo, mi accorgevo che in città avevo notato solo ciò di cui conoscevo già il nome. Per esempio mi ricordavo di un’acacia vista per strada, ma non dell’albero che le stava accanto, che non sapevo come si chiamasse. Avevo capito, insomma, che quante più parole avessi conosciuto, tanto più ricco, pieno e variegato mi sarebbe apparso il mondo in cui mi trovavo.




  
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