Il tutto reso ancora più evidente dalla latente consapevolezza della sconfitta da parte del generale Kuribayashi e di molti altri ufficiali e soldati che, nonostante la loro conscia purezza vitale, devono sottostare, più o meno convinti, a quell’aberrazione culturale che è l’estremizzazione del patriottismo e del nazionalismo.
Attraverso il generale ed i suoi tanti viaggi in america, Eastwood incrocia i due universi culturali e mostra, con uno spietato rammarico, come gli incontri culturali possano sempre volgersi nel loro opposto. Uno scontro che il regista statunitense filma, con questo lavoro e col precedente Flags of our fathers, sia dal punto di vista americano sia da quello giapponese cercando di prendere in considerazione le ragioni ed i torti di entrambe le parti in causa.
Una visione stereoscopica, aldilà della logica storica dei vincitori e dei vinti, che porta alla mente il lavoro di un cineasta come Roberto Rossellini ed i suoi tanti film bellici che prendevano in considerazione le diverse tradizioni culturali e le analizzavano. E poi le giovani vittime di questi interessi politici, mandate sul fronte a perdere la vita in nome di un assurdo ideale, come Saigo, il protagonista del film.
E’lui il personaggio da cui parte l’intreccio filmico, lui è l’autore delle lettere, mai spedite, ritrovate all’inizio del film da un gruppo di ricercatori ed è lui che, probabilmente, riuscirà a raccontare a voce quelle vicende alla moglie ed al suo bambino, ritrovando una quotidianità di pace domestica e lavorativa, che la guerra rende anelabile. Tra i produttori del film, oltre ad Eastwood, compaiono Steven Spielberg e Paul Haggis: a volte, i più grandi registi americani viventi sanno appoggiarsi l’un l’altro a beneficio del risultato finale.
Amare l'arte è benessere
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