Si fa fatica a immaginarlo sessantenne, questo artista che conosciamo da una vita, sì (più di quarant'anni in scena e in sala di registrazione), ma che è sempre avanti, oltre, perché “Time may change me, but I can't trace time – Il tempo mi può cambiare, ma io non posso seguire il tempo” (da Changes, 1971).
E in questi quarant'anni Bowie è stato davvero precursore di generi, “detonatore” per tendenze che sarebbero continuate senza di lui, quando lui sarebbe stato già più avanti, a sperimentare altro, a cercare, a contaminare. Percorsi a volte obliqui e non compresi, in una metamorfosi non solo musicale, ma estetica, che ha coinvolto l'artista come uomo che spesso ha scavalcato il sottile confine che lo separava dal suo personaggio.
Mr. David Robert Jones è nato a Brixton, quartiere di Londra, l'8 gennaio 1947: la sua giovinezza la vive nel pieno della swinging London dei favolosi anni '60.
Il suo primo lavoro, David Bowie (1967), passa inosservato; ma nel 1969, inaspettatamente, Bowie scrive un classico del rock che lo proietta già in una dimensione diversa da quella della sua generazione, ancora alle prese con suggestioni hippie e psichedeliche: Space Oddity, ballata rock “spaziale”, cui segue una rivoluzione musicale e insieme spettacolare.
Sono infatti gli album successivi (dal 1971 al 1973 The Man Who Sold The World, Hunky Dory, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, Aladdin Sane) a far esplodere il “fenomeno Bowie”, a segnare gli interi anni Settanta e a creare un nuovo genere: il glam rock.
Un crogiolo di rock duro, echi di Zappa e di Dylan, lustrini, ambiguità sessuale, atteggiamenti da dandy, contaminazioni con le arti teatrali e visive, in cui Bowie diventa performer a tutto tondo e si fonde con il primo personaggio della sua carriera: Ziggy Stardust, l'alieno caduto sulla terra, metafora dell'ascesa e caduta dei mostri del rock e del rapporto morboso che lega l'idolo alle sue folle, parodia del divismo e della ricerca ossessiva del warholiano “quarto d'ora di celebrità”.
Non a caso Bowie farà simbolicamente morire questo personaggio alla fine del tour del 1973: la sua saga sarà ricordata e trasfigurata anni dopo nel film Velvet Goldmine (di Todd Haynes, 1998), che celebra i fasti della breve e bruciante epopea glam.
Ucciso Ziggy, Bowie non si ferma: al ritmo di un disco all'anno esplora territori nuovi. Non senza incorrere in qualche caduta, ma sicuramente anticipando il clima e l'atmosfera che di lì a poco sarebbero seguiti alla furia punk di fine anni '70: si profilava la New Wave, e Mr. Bowie ne sarebbe stato fra i protagonisti.
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