Il quasi esordio cinematografico di Nanni Moretti –Io sono un autarchico girato in super8 fu proiettato esclusivamente in un famoso cineclub romano- viene riproposto al pubblico, nell’edizione con il restauro digitale dell’immagine e del suono, ventotto anni dopo la sua uscita nelle sale.
Ecce bombo fu presentato in concorso al festival di Cannes 1978. Rivederlo è un’occasione per tornare indietro nel passato recente dell’Italia, respirare quegli anni di militanza politica e di smarrimento giovanile, con gli occhi di un autore che vuole sì fotografare la realtà del circostante, ma sforzandosi di renderla intelligibile con il suo personale umorismo.
Un umorismo amaro che, insieme alla recitazione fredda, quasi asettica, degli attori, rende l’atmosfera di questo film presaga dell’imbarbarimento dei valori che, già macchinosamente, si predicavano trent’anni fa; un’atmosfera gravida, nella sua critica deriva individuale, del disfacimento attuale di tutti quei comportamenti sociali che davano coerenza, nella pratica, a quei valori idealistici.
Il film racconta le vicissitudini, o meglio l’ammazzare il tempo, di un gruppo di vitelloni romani alla fine degli anni settanta. Viene subito in mente, come parallelo, il film di Fellini dove un gruppo di giovani nell’Italia del boom economico cercava di oziare il più a lungo possibile, prima di assumersi le proprie responsabilità sociali adulte. Qui il problema, invece, non è semplicemente di comodo ma anche di sostanza esistenziale.
I personaggi del film di Moretti infatti, per quanto caricaturali, sono la personificazione di una dura presa di coscienza. La vivida constatazione che gli ideali causali del sessantotto e le utopie che l’hanno generato sono sull’orlo di una sconfitta irrimediabile. Sconfitta che era, tralaltro, costantemente presagibile nell’animo di un paese qualunquista come il nostro. Da qui la memorabile gag invettiva di Michele al bar contro Alberto Sordi, o meglio contro i personaggi da lui rappresentati nei film in cui ha recitato.
L’operazione interessante che fa Moretti è quella di raccontare una realtà, seppur nazionale, che non strizza l’occhio ai luoghi comuni e non si banalizza nello stereotipo dei caratteri italiani. Il film potrebbe arrivare da qualunque parte d’Europa. Gli eventi storici hanno completamente segnato questi personaggi e le analisi dei loro rapporti interpersonali sono di un assoluto acume antropologico -seppure nella necessaria e minima contestualizzazione locale- anzi quasi entomologico, con l’occhio della macchina da presa di Moretti a fare da microscopio.
Uno sguardo analitico sull’incompatibilità generazionale tra i difetti dei genitori e gli eccessi dei figli, sul difficile e contraddittorio rapporto tra sessi, sulla monotonia e la vacuità del rapporto coi coetanei. E poi i dialoghi, le frasi che sono rimaste nell’immaginario collettivo dei giovani, le situazioni grottesche di cui questo film è pieno: dal “mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo per niente?” di Michele alla “Comune di Parigi” di Vito, dal racconto di quella notte trascorsa ad aspettare l’alba ad Ostia di Mirko al professionale “giro, vedo gente, conosco, mi muovo, faccio delle cose” di Cristina, passando per l’esame di maturità dello studente sul poeta amico Alvaro Rissa. Un film per riscoprire i primi passi di uno dei registi italiani contemporanei che è sempre, a torto o a ragione, atteso e discusso.
Amare l'arte è benessere
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