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RICORDANDO ROBERT ALTMAN. CHI GLI SUCCEDERA’ IN AMERICA, OGGI?
Un viaggio nella nutrita filmografia di un grande cineasta che come pochi ha saputo vivisezionare le contraddizioni dell'America con sguardo insieme partecipe e dissacrante.

Miriam Giudici

Io credo che, quando il cittadino medio presta attenzione al peso mediatico degli uomini politici, la politica sia nei guai. Mescolare politica e spettacolo è molto pericoloso. La gente si confonde. Voglio dire: io, come uomo di spettacolo, non voglio diventare un politico, ma vedo molti politici che vogliono diventare uomini di spettacolo! Mi sembra che nel mondo ci sia una sorta di epidemia: tutti vogliono comunicare per immagini.

Una recente dichiarazione di Robert Altman, questa, che condensa in poche righe alcuni dei temi più frequentati della sua lunghissima filmografia, iniziata nel lontano 1957 con The Delinquents e conclusasi quest'anno con Radio America, ultima fatica di una vita spesa per il cinema che si è spenta pochi giorni fa, il 20 novembre a Los Angeles.

Altman era nato nel 1925 a Kansas City (Missouri), aveva frequentato scuole cattoliche e si era diplomato all'accademia militare di Wentworth. Sul finire della seconda guerra mondiale era stato pilota di B52 e poi aveva deciso di seguire la sua vocazione artistica trasferendosi a Hollywood.

Sarebbero seguiti anni di gavetta e di intenso lavoro come documentarista e sceneggiatore per la radio e per la televisione (con collaborazioni, fra le altre, per Bonanza e per le serie di Alfred Htichcock): sono anche anni in cui si precisano alcune caratteristiche dell'Altman-regista cinematografico, ovvero lo sguardo caustico e irriverente sulla realtà americana, la tendenza a dirigere storie con molti personaggi e molte vicende che si intrecciano in un ambiente chiuso, la predilezione per dialoghi serrati e con un sottotesto sarcastico, a volte grottesco.
Tutte caratteristiche che procurano ad Altman una serie di problemi con i produttori, che infinite volte lo ostacolano, lo scaricano o lo licenziano.

Solo negli anni Settanta, in una Hollywood e in un'America che stanno cambiando, i tempi diventano maturi per recepire la poetica di questo regista: e infatti il suo primo successo, internazionale, arriva nel 1970 con M.A.S.H., dissacrante commedia nera sull'esercito americano impegnato nella guerra di Corea, che vale ad Altman una nomination all'Oscar e la Palma d'Oro al Festival di Cannes. Inizia così una stagione d'oro per il cineasta di Kansas City, che nel 1975 firma il suo secondo capolavoro, Nashville, altro film corale in cui Altman riesce a bilanciare tra loro le vicende di ben 24 personaggi, che condividono la partecipazione ai cinque giorni del festival canoro che si svolge nell'omonima cittadina del Sud degli Stati Uniti.

Seguono una serie di produzioni (Tre donne, Un matrimonio, Quintet, il pesante flop Popeye) a cui però non arride il successo del pubblico: la popolarità di Altman cala, e il regista preferisce rallentare la sua carriera cinematografica per dedicarsi anche al teatro.

Altman ritorna in auge negli anni Novanta, quando vince nuovamente la Palma d'Oro con I protagonisti e sforna una serie di altri film che sono tutti una metafora di Hollywood, dell'America o comunque della società contemporanea, analizzate quasi sempre attraverso i rapporti affettivi, sentimentali, sociali di un gruppo di persone riunite in ambienti ristretti: citiamo America Oggi, Prêt-à-Porter, La fortuna di Cookie, Il Dottor T e le donne, fino al film in costume Gosford Park, dove dirigendo ben 48 personaggi – suddivisi nei due mondi speculari dei “servi” e dei “signori” che vivono nella stessa casa della campagna inglese degli anni Trenta – Altman propone insieme un giallo da manuale, ma anche un'analisi spietata dei rapporti di classe in un'epoca che stava per tramontare.

Sono anche anni in cui fioccano i riconoscimenti: nomination all'Oscar (America Oggi e Gosford Park), Leone d'Oro (America Oggi), l'Oscar alla carriera giunto proprio quest'anno. I suoi ultimi lavori sono stati The Company (2003) e Radio America: ultimo regalo al cinema e al pubblico di un cineasta che ha saputo gettare sull'America, sul suo cinema, sulla sua politica e sulla società contemporanea tutta uno sguardo pungente, ora impietoso ora divertito, mai rassicurante ma sempre pieno di interesse e comprensione per la condizione umana.



(27/11/2006) - SCRIVI ALL'AUTORE


Amare l'arte è benessere

  
  
 
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