Il gerarca fascista Barbagli contro tutto e contro tutti decide di portare avanti la sua bizzarra idea di conquistare il bolscevico pianeta rosso Marte. Lo scopo è dimostrare la sapienza tecnica e la forza di volontà imparagonabili dello spirito italico.
Ovviamente questa impresa impossibile si rivela piena di insidie e di imprevisti, improbabili quanto assurdi. Eppure Barbagli riesce a portare avanti la sua missione e a spronare la sua ciurma, neppure quel manipolo di uomini soli fosse fatto di novelli eroi di una qualche epopea tragicomica.
Questo progetto, che Guzzanti porta avanti da quattro anni, giunge tardi nelle sale per varie ragioni, sia produttive che creative, alla luce del lungo ed estenuante lavoro di montaggio a cui lo stesso Guzzanti ha preso parte, in quanto artefice completo dell’operazione.
Ma arriva tardi anche perché il clima politico in cui nasceva è ormai mutato: il progetto vedeva la luce nella forma di strisce brevi che imitavano i fasulli e ben camuffati cinegiornali d’epoca fascista.
Fascisti su Marte, nella forma di strisce settimanali, aveva lo scopo di parodiare il governo di centrodestra che ha governato dal maggio 2001 all’aprile 2006. L’idea ha subito conquistato il pubblico televisivo, indipendentemente dalle ragioni di satira politica, per la fattura ricercata e la minuziosa indagine sui costumi e le metodologie che stavano dietro all’edificazione dei cinegiornali propagandistici del ventennio fascista.
Quelle strisce già viste in tv sono confluite nella prima parte del film, successivamente ad esse sono state integrate delle altre girate appositamente, fino all’ultima parte del film in cui compare finalmente una abbozzata struttura narrativa, e non più semplicemente episodica, in cui Barbagli deve avere a che fare con dei problemi di gestione dei malumori, per cui succedono una serie di peripezie che condurranno al finale forse amaro, ma in linea con la tragicomicità che pervade tutta l’operazione.
Il problema è che da un mero punto di vista cinematografico il film non è neppure lontanamente sufficiente, per l’eccentricità e per la completa approssimazione nello sforzo drammaturgico, nonché per la mancanza di equilibrio formale che dà al film quella coerenza interna sufficiente a favorire nello spettatore la convinzione di assistere ad uno spettacolo di finzione e, soprattutto, immedesimante.
E tuttavia per le stesse ragioni si potrebbe definire cinematografico, da qui il doppio voto, per il fatto che spinge all’estremo determinate regole del linguaggio narrativo, alla maniera di un Marco Ferreri per esempio (Non toccare la donna bianca è un gran film dalla trama completamente western girato nella Parigi della seconda metà del Novecento con attori vestiti in costume che come se nulla fosse si muovono in mezzo a palazzi ed elementi della modernità).
Ossia: se si apprezza la comicità, se si ammira il lavoro di ricerca oratoria e linguistica, nonché la perizia nella ricerca delle musiche d’epoca fascista, il film di Guzzanti può tranquillamente essere considerato un film grottesco e avanguardistico, scomposto e sfilacciato, geniale o approssimativo, di sicuro senza precedenti.
Forse ci troviamo di fronte ad uno di quei film che chiede espressamente di essere giudicato solo ed esclusivamente per il contenuto che offre, dimenticandoci del tutto della forma che adopera; dopotutto il cinema italiano è pieno di esempi di questo tipo: dalla commedia popolare di Troisi e Benigni Non ci resta che piangere, passando per il satirico e blasfemo Pap’Occhio di Renzo Arbore, fino alla Trilogia della Vita di Pasolini.
Amare l'arte è benessere
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